Intervista ai Motus. Prima e dopo King Arthur, al RomaEuropa Festival

I Motus arrivano al Teatro Argentina di Roma, il 18 e 19 ottobre, con la loro ultima produzione, “King Arthur”, ispirato all’omonima opera barocca di Purcell. Ne avevamo già parlato, con largo anticipo, in un ampio editoriale di Giuseppe Pennisi. Adesso la parola va agli autori, intervistati da Giovanni Gaggia: un artista e performer, in dialogo con due maestri dell’arte scenica. A commento, le foto inedite di Gianluca Panareo: un altro artista, che interpreta col suo bianco e nero cinematografico i momenti della prova generale

Il 16 e 17 settembre 2014, in occasione della 65esima Sagra Musicale Malatestiana, è partita da Rimini la nuova produzione dei Motus – Enrico Casagrande e Daniela Nicolò – rilettura del King Arthur di Henry Purcell su testo di John Dryden. Una grande emozione, per me, poter assistere alla prova generale – immortalata dagli scatti di Gianluca Panareo –, incontrare gli autori prima e dopo lo spettacolo, osservare la scena a sala vuota, scovare i dettagli, notare come già senza attori, leggii e luci, lo spazio del teatro sia abitato da presenze vive.
Come spesso dico, nulla succede a caso. I Motus sono parte della mia tesi di laurea, uno studio dal titolo Il corpo scelto, che racconta l’uso del corpo dagli Anni Sessanta a oggi, in particolare nella performance, toccando il cinema e il teatro contemporaneo. Ma è solo in questo preciso istante della mia vita che mi ritrovo a meditare sui generi performativi, sul confine dell’azione legata alle arti visive o su quella legata al teatro contemporaneo, su cosa è spettacolo e cosa non lo è, su cosa è realtà e cosa è finzione. Una riflessione ampia intorno al concetto di spettacolo, in relazione all’atto  performativo, che oggi ho la fortuna di condividere con i Motus.

Motus - King Arthur, Glen C¦ºac¦ºi, foto di Gianluca Panareo

Motus – King Arthur, Glen C¦ºac¦ºi, foto di Gianluca Panareo

Cosa distingue una performance che si inserisce nellambito delle arti visive da una che si colloca nel perimetro del teatro contemporaneo?
Esiste una notevole differenza, perché in genere nelle arti visive l’azione performativa è un atto unico, ed è gesto, presenza, forma, oggetto. Può essere brevissima come un’apparizione oppure estenuata nel tempo, quindi ripetuta o abitata: gli esempi sarebbero tanti, ma possiamo citare la Abramovic, per chiarezza, che nel suo lavoro ha attraversato tutte queste modalità.
In teatro la differenza fondamentale è legata al tempo di esposizione, di composizione e di fruizione: benché nei nostri lavori vi sia una evidente attitudine performativa, la dimensione scenica li rende sempre “momento” all’interno di un discorso più ampio, fatto di molte evocazioni. La drammaturgia e l’alta complessità compositiva che caratterizzano i nostri spettacoli non li rendono mai dei gesti unici, one-line, ma delle potenti stratificazioni narrative in cui il gesto e il corpo sono sempre al centro, ma sono spesso anche tramite o ingranaggio di una macchina più ampia.

Un occhio registico cosa può aggiungere a una performance di arti visive?
Non saprei esattamente, è difficile parlare in generale senza fare degli esperimenti specifici: per noi ogni progetto ha vita e linguaggio propri. Forse semplicemente può imprimere una maggiore cura dei particolari, nel lavoro dei performer o dell’allestimento visivo stesso. Ma ripeto, è una questione di scelte. Potrei dire che noi effettivamente non abbiamo mai fatto una vera performance di arte visiva perché siamo e rimaniamo comunque molto ancorati alla drammaturgia teatrale. Fanno eccezione alcune installazioni video e forse CRAC (era un lavoro senza testo solo con Silvia Calderoni – su pattini – e un apparato video interattivo molto sofisticato) che abbiamo sempre presentato come performance, in musei e gallerie, anche se nella sua ossessività era rintracciabile comunque una vaga evoluzione narrativa…

Motus - King Arthur, il pubblico in fila nel chiostro degli Agostiniani, foto di Gianluca Panareo

Motus – King Arthur, il pubblico in fila nel chiostro degli Agostiniani, foto di Gianluca Panareo

La performance di arti visive si caratterizza per lo scambio diretto di energie tra il performer e il pubblico, senza mediazioni. È così anche nelle vostre opere?
Potremmo dire di sì. O meglio, è quello che inseguiamo. Anche per questo nei nostri ultimi lavori c’è una forte coinvolgimento fisico degli attori che – pur essendo impegnati in un cospicuo lavoro sul testo – lasciano il fulcro della comunicazione con il pubblico alla loro presenza e alle immagini sintetiche e folgoranti che riescono a creare con pochi elementi scenici ben dosati. Ci sono stati ripetuti tentativi di coinvolgimento del pubblico, su diversi versanti, anche nel progetto Antigone: in Let the sunshine in gli spettatori erano seduti al centro della scena, attraversati, quasi “trafitti” dalla performance e alla fine invitati a donare la loro sedia per “seppellire” il corpo di Polinice. Per non parlare dell’invito al pubblico a “spostarsi “ su palcoscenico in Alexisper vedere le cose da un altro punto di vistacome le capre”. Sono solo alcuni esempi e potrei continuare: ma va specificato che lo scambio di energie con il pubblico non avviene solo di riflesso al coinvolgimento fisico diretto, ma può essere il risultato di ben altre alchimie intellettuali.

512 Hoursè lultimo lavoro di Marina Abramovic presentato alla Serpentine Gallery di Londra: una performance sul niente, pochi elementi legati all’artista, il pubblico deve lasciare fuori tutto ciò che conduce al tempo, cellulari, orologi. Tutto è affidato alla capacità dell’artista di relazionarsi con il suo pubblico. 512 sono le ore dell’intera durata della mostra. Che ne pensate di una performance di questo tipo?
Amiamo moltissimo il lavoro della Abramovic e, pur non avendovi partecipato, non possiamo che apprezzare un’operazione del genere. Di fondo prediligiamo tutto ciò che è coerente ed estremo, amiamo gli artisti che non si risparmiano, che mettono in gioco completamente se stessi, la propria pelle, la propria biografia, il proprio tempo privato. È un grosso impegno che chiediamo anche ai nostri attori che, con modalità diverse, sono però investiti di grande responsabilità sul palco e finiscono inevitabilmente “per mettere in scena” se stessi. Penso che questa generosità, questa esposizione estenuata finisca inevitabilmente per creare una comunione con il pubblico, che non può sottrarsi al dialogo.
Quello che vorremmo fare in futuro è riuscire a concepire un lavoro che abbia una fruizione prolungata, di molte ore: riuscire davvero ad abitare un luogo assieme a chi guarda. È un’operazione che non abbiamo mai fatto, perché tendiamo sempre a cercare delle sintesi… Ma ora avremmo desiderio di confrontarci con quest’altra modalità di consumo del tempo.

Agli inizi della vostra carriera eravate registi di voi stessi: cos’è per voi il corpo? Come vi relazionavate con le vostre fisicità reciproche in scena?
Era naturale per noi, all’inizio, essere in scena, perché non avevamo che noi stessi! Entrambi abbiamo inoltre una auto-formazione da attori, fatta fuori dalle scuole ufficiali e centrata su un fortissimo lavoro fisico. Era inevitabile quindi immaginarci nelle opere, perché la percezione del tempo e dello spazio passava essenzialmente attraverso il nostro corpo. Ed è probabilmente attraverso questa esperienza diretta che molte delle opere che abbiamo concepito agli inizi hanno assunto una connotazione radicalmente viscerale ed esposta. In principio, per noi, il corpo era tutto, c’erano pochissime parole, non è un caso che abbiamo cominciato lavorando su Beckett e sulle sue ultime visioni torturate, per poi arrivare al corpo esposto e mutante di Ballard con Catrame ispirato a La mostra delle atrocità. Noi, coi capelli decolorati, spesso nudi, con la pelle forata da piercing e gli abiti in pelle nera, vivevamo fino in fondo ogni atto scenico. Non c’era separazione fra performance e vita: è stata un’immersione totale, perché tutto quello che avveniva sul palco doveva essere “vero”, esperito fino in fondo da noi stessi, nel bene e nel male.

Motus - King Arthur, Silvia Calderoni e Yuliya Poleshchuk, foto di Gianluca Panareo

Motus – King Arthur, Silvia Calderoni e Yuliya Poleshchuk, foto di Gianluca Panareo

Perché decidere poi di non andare più in scena in prima persona?
Perché gli spettacoli si sono via via complicati, stratificati, sono esplosi su tanti fronti, anche dal punto di vista tecnologico: da quando il nostro teatro è stato fecondato in modo ponderoso e più diretto dal cinema (attorno agli Anni Zero) abbiamo cominciato a concepire delle macchine sceniche talmente sofisticate – vedi Twin Rooms – che era necessario non solo “guardare da fuori”, ma anche gestire direttamente la regia. Ad esempio, io in Twin Rooms stavo al mixer video e “montavo” in diretta il film che si “stava girando” in scena; Enrico ha iniziato ad appassionarsi sempre più della cura degli ambienti sonori, che andavano a comporre organicamente la drammaturgia stessa degli spettacoli.
È stato un passaggio fluido, quasi obbligato, verso il quale non abbiamo alcun rimpianto. Anzi, adesso sarebbe impossibile stare “dall’altra parte” anche per soli dieci minuti. Poi abbiamo iniziato sempre più a scrivere, a occuparci della drammaturgia, man mano che il testo acquisiva sempre più rilevanza nelle opere; ed anche questa distanza/mediazione verbale-intellettuale ha contribuito all’allontanamento. Il rapporto con la scena è divenuto sempre più concettuale e sempre meno fisico. And last but not least, abbiamo incontrato attori come Dany Greggio prima e Silvia Calderoni ora, che hanno davvero “incarnato” la nostra stessa presenza in scena.

Come si inserisce King Arthur nel dibattito sullarte come strumento di emozione diretta?
Forse non siamo aggiornati rispetto a questo dibattito. Forse sono domande che non ci siamo mai posti: fondamentalmente facciamo quello che sentiamo. Creiamo dei mondi in cui, e da cui, aspiriamo le energie per continuare a esserci. Mirare alle emozioni in maniera diretta? Non è un obiettivo che ci poniamo razionalmente. Non può esserlo altrimenti si scadrebbe nel populismo più becero. Abbiamo però molto bisogno di emozionarci, in qualche modo. Se non proviamo questa sorta di empatia viscerale con ciò che facciamo, è la morte. E dicendolo in maniera ancora più schietta: se non amiamo ciò che facciamo, quello che nasce è già morto. È un’equazione molto semplice. È un’alchimia delicata. A volte avviene, a volte no.
Nel King Arthur abbiamo provato molte nuove emozioni colorate. Forse perchéè una esperienza mai praticata prima, forse perché la musica barocca ha questo potenziale allucinogeno… Sta di fatto che lì qualcosa accade. Ed è molto bello. Nel senso sano del termine. Ecco, il King Arthur è una riscoperta della bellezza (e della dolcezza) per tutti noi, e questa meraviglia condivisa finisce per coinvolgere tutti.

Motus - King Arthur, Glen e Laura, foto di Gianluca Panareo

Motus – King Arthur, Glen e Laura, foto di Gianluca Panareo

Dopo più di vent’anni di attività (i Motus nascono a Rimini nel 1991) ho assistito a una pièce tra opera lirica, teatro, videoarte, danza e giocoleria. Come si arriva a uno spettacolo così complesso e contaminato?
Ci si arriva per desiderio e per necessità. Il desiderio nasce dalla curiosità verso l’inatteso e l’inesplorato. Nasce dal voler mettersi in difficoltà nel confronto con ciò che non si conosce. La necessitàè dovuta al rapporto con alcune certezze precostituite: una scaletta musicale da rispettare, un testo da attraversare e in qualche modo preservare. Due condizioni inderogabili con cui non ci eravamo mai confrontati: abbiamo sempre lavorato nella più assoluta libertà rispetto a testi e temi. Il dover seguire/interagire con una partitura ci ha condotto all’esplorazione di modalità compositive per noi sconosciute, sino all’ utilizzo di alcune consuetudini sceniche che mai avremmo affrontato  e con cui ci siamo molto divertiti. Non volevamo rinunciare a noi stessi, ma non potevamo non accogliere e valorizzare al massimo questi musicisti e cantanti che per noi non erano semplici presenze da “collocare in un quadro”, ma esseri umani con cui interagire.
Ne è nato così un lavoro dai molteplici livelli, che rappresenta, che evoca, ma al tempo stesso accoglie nel suo seno la musica e coloro che la suonano. Ne fa pasta viva da plasmare all’infinito nel cortocircuito fiammeggiante che è nato con gli attori, con molto rispetto. E il King Arthur parla essenzialmente di amore, perché i sensi tutti sono davvero accesi e vigili solo quando amano, quando amano anche un’idea.

Per la prima volta compaiono in King Arthur cantanti lirici e musicisti d’opera. Com’è stato dirigerli e com’è stato rapportarsi con un nuovo pianeta?
Ci chiamiamo Motus e amiamo il cambiamento. E amiamo soprattutto i nuovi incontri. Tutto il nostro percorso è costellato da incontri fatali che hanno portato a repentini cambiamenti di rotta: l’incrocio con musicisti/cultori del barocco è stato fulminante, perché coltivano un’ossessione meravigliosa, che è quella di suonare questa musica con strumenti d’epoca che richiedono manutenzione, continue accordature, attenzioni inusuali. Ciascuno di loro ha con il proprio strumento un rapporto sensuale, di dedizione e di cura, di rispetto e di studio, Qualcosa che non possiamo non invidiare.
Ancora una volta torna il fascino per l’estremo, per l’andare sino in fondo, verso una musica organica, che è tutt’uno con il corpo che suona e lo spazio che viene invaso di sonorità. Come i corpi e le voci dei cantanti: altri strumenti/armi da allenare e accudire. Armi da taglio. Che attraversano luoghi ed epoche senza invecchiare. Resistono, perché sono “della stessa materia dei sogni”.

Motus - King Arthur, Silvia Calderoni.  foto di Gianluca Panareo

Motus – King Arthur, Silvia Calderoni. foto di Gianluca Panareo

Questa nuova opera rivela un profondo uso del video, il pubblico assiste a un meticoloso mixage straniante di scene girate nell’ex fiera di Rimini e scene in presa diretta. Che valore aggiunge allo spettacolo? Perché riprendere gli attori quando sono già in scena?
Sono sicura che sei qui, perché vedo la tua voce”. Questa frase di Emmeline nel testo di Dryden è la chiave d’ingresso al nostro King Arthur, dove tutto è esposto ma al contempo confuso, dove la realtà si mescola al sogno, ai flashback, all’allucinazione, dove ogni particolare è amplificato e deformato come in un universo carroliano. Dove tutte le presenze sono sezionate come in una Wunderkammer. C’è un cameraman in scena che riprende alcune cose, ma non tutto. Che agisce da lente di sovraesposizione, che serve innanzitutto e soprattutto a esporre il canto, a fare ultra-vedere il canto stesso o meglio i cantanti nell’atto/fatica/piacere del cantare. Il che serve a rendere visibile le piccole pieghe del volto degli attori, presi nel momento in cui interpretano il carattere, il momento, il verso dell’opera prescelto. La presenza del cameraman crea un altro punto di vista e moltiplica le possibili vie di fuga rispetto alla visione prospettica centrale, tipica del Rinascimento. È parte della macchina barocca che abbiamo costruito come fantasmagoria contemporanea.

Quali sono i vostri progetti futuri? Come si evolverà King Arthur?
Il King Arthur verrà fra poco adattato e trasformato in forma “più teatrale” per grandi palcoscenici (e sicuramente avremo nostalgia della piccola sala di Rimini dove è nato).
Ma era previsto sin dall’inizio che sarebbe poi stato presentato al Teatro Argentina di Roma, quindi rimettendolo in prova (al Teatro Rossini di Pesaro) sicuramente continueremo a fare piccole trasformazioni, come sempre accade in tutti i nostri spettacoli che sono masse in movimento continuo ed ostinato.
Rispetto a progetti futuri: veniamo da un anno che ha visto la nascita di tre nuovi progetti diversissimi fra loro: la performance Caliban Cannibal con Silvia e Med Alì Ltaief, lo spettacolo LIWYATAN ispirato al Leviatano di Paul Auster messo in scena con i quindici allievi della scuola d’alta formazione Manufacture di Losanna, e infine il King Arthur… Diciamo che ora abbiamo bisogno di un periodo di riflessione e ricerca: abbiamo in programma alcuni viaggi strategici: il primo a fine ottobre, verso il muro in Israele e nei territori occupati.

Giovanni Gaggia

Roma // dal 18 al 19 ottobre 2014
RomaEuropa Festival
Motus | Henry Purcell | Ensemble Sezione Aurea King Arthur
TEATRO ARGENTINA
Largo di Torre Argentina 52
06 684000311
http://romaeuropa.net/news/motus-henry-purcell-ensemble-sezione-aurea-king-arthur/
http://www.motusonline.com/

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati