Italian Area. Luca Rossi dà i voti agli artisti (R-X)
“Un atto d’amore nei confronti dell’arte e degli artisti”: così definisce le proprie pagelle Luca Rossi. Le prime tre puntate le abbiamo pubblicate prima dell’estate, ora l’ultima tornata. Che, immaginiamo, farà discutere come le precedenti…
In una famosa scena del film L’attimo fuggente, Robin Williams invita i suoi studenti a strappare l’introduzione a un manuale di letteratura. In quelle pagine, un insigne professore spiega come sia possibile misurare oggettivamente qualsiasi poema. Il Professor Keating – questo il nome del personaggio interpretato dall’attore recentemente scomparso – argomenta come non sia possibile fare l’hit parade delle poesie. Potremo dire la stessa cosa per le opere d’arte e gli artisti? A mio parere sì. Non esiste arte giusta e arte sbagliata, mentre invece è possibile argomentare criticamente senza l’assurda pretesa di raggiungere risultati oggettivi. Questa necessità di argomentare e dialogare è ancora più forte se ci confrontiamo con un sistema che vede un pubblico assente o disinteressato; addetti ai lavori che, arroccati su torri d’avorio, hanno perso qualsiasi interesse e capacità a una critica argomentata; opere d’arte che “sono interessanti” solo in base ai luoghi e alla pubbliche relazioni che le sostengono o rispetto al clamore che producono. Sono convinto che il Professor Keating considererebbe anomalo giudicare una poesia in base al luogo in cui viene letta o al fatto che venga urlata o meno.
Considero queste “pagelle” un atto d’amore nei confronti dell’arte e degli artisti. La severità dei giudizi è motivata soprattutto da una prudenza nei confronti della storia dell’arte e di percorsi ancora aperti e in divenire. Questa ricognizione sull’arte italiana degli ultimi vent’anni, è la cartina di tornasole di un contesto di formazione, valutazione e promozione che considero profondamente carente.
Davide Rivalta
Ossuta e ostinata la sua ricerca, spesso distante dai soliti giri prevedibili del sistema italiano. Dovrebbe osare di più, esagerare, anche con ironia e delicatezza. Potrebbe diventare il Thomas Houseago italiano. Il rigore di un percorso porta necessariamente consapevolezza, che è la parola che dovremo sostituire a “novità” e “innovazione”.
Voto 5,5 (con incitamento)
Pietro Roccasalva
Emerge negli ultimi dieci anni attraverso la Galleria Zero… di Milano, che gli permette una certa visibilità e la partecipazione ad alcune fiere internazionali. Inizialmente si narra di prezzi folli dei suoi quadri. Propone una pittura molto debitrice di Gino De Dominicis, aiutata da una buona tecnica e da quelle che l’artista chiama “situazioni d’opera”: una sorta di installazione davanti e intorno al dipinto. Queste situazioni d’opera riprendono spesso elementi biografici dell’artista, che vengono giustapposti con altri, portando a un risultato surrealista/inaspettato. Le installazioni fuori dal quadro sembrano troppo spesso stampelle per la pittura. Gli arancini incontrano un pappagallo, e poi un neon che scarabocchia lo spazio; o ancora due gemelli arbitro o una donna che cancella il logo del Sole 24 Ore. Qualsiasi elemento che, insieme ad altri, affianchiamo nei pressi del dipinto, rende la situazione necessariamente curiosa e “interessante”. Se io adesso esco di casa con una scala in mano, un mega arancino e un criceto al mio fianco che mangia una copia del Corriere della Sera, creo una situazione surreale che attira necessariamente l’attenzione. Se faccio questo davanti a un quadro abilmente disegnato, e ispirato al mondo fascinoso di De Dominicis, il quadro assume “aura”, e quindi valore, secondo certi meccanismi tipici dell’arte contemporanea. A mio parere la reiterazione di questa modalità diventa un gioco fin troppo facile che non porta molto oltre a un brividino straniante.
Voto 4,5
Antonio Rovaldi
Anche lui dedito a quello che ho definito “smart relativism”, che facilmente tende a scivolare nell’Ikea evoluta. Artisti che propongono una pluralità di opere ognuna delle quali appare formalmente e concettualmente preparatissima e “intelligente” rispetto una certa moda mainstream. L’opera appare come un buono standard, per il quale saranno i luoghi e le pubbliche relazioni giuste a renderlo “interessante” e “di valore”. Guardando le opere di Antonio Rovaldi sembra di vivere un continuo déjà-vu rispetto al percorso di decine di artisti italiani e non solo. Intuizioni e idee del Novecento vengono continuamente remixate in una post-produzione continua, e con una particolare attenzione a una sensibilità riconducibile all’Arte Povera. Ormai potremo parlare di post-post-postproduzione. Un recente progetto di Rovaldi prevede un lungo cammino per la penisola italiana, al fine di fotografare diversi orizzonti, che poi vengono appesi al muro presso la Galleria Monitor di Roma. Come non vedere una certa melanconia poverista (Giuseppe Penone nei boschi si sposta sulla costa?) unita alla pratica di un artista come Richard Long che (negli Anni Sessanta) faceva lunghe camminate per portarne in galleria alcuni resti? Come non vedere in questi artisti una preparata forma di artigianato che elabora il Novecento in una postproduzione infinita? Le opere poi tendono a essere proposte a prezzi molto alti. Trattandosi di una rielaborazione del già noto, per quanto poetica, non è forse il caso di parlare di “Ikea evoluta”?
Voto 3,5
Matteo Rubbi
Anche lui tra le ultime nidiate di Alberto Garutti. Di Matteo Rubbi apprezzo l’energia e la generosità di alcuni lavori. Anche nel suo caso rileviamo, a volte, la citazione e il riferimento diretto al passato, come se questo potesse automaticamente e in modo insindacabile caricare l’opera di valore. Generoso ed energetico il suo sistema solare nei dintorni dello Studio Guenzani; generoso ed energetico il suo workshop per coinvolgere il pubblico a ricreare un famoso vascello. Ma poi altre opere che sembrano perdersi. Ultimamente in una residenza negli Usa, ed ecco che emergono sul deserto piccole città moderne ricostruite. Il rischio di Rubbi è quello di perdersi e di diluirsi, fino a mimetizzarsi nell’ondata omologante della giovane arte nazionale e internazionale.
Voto 5
Arcangelo Sassolino
Sassolino conduce una ricerca interessante su materiali meccanici o sottoposti a grande sforzo e pressione. Anche lui debitore di una ricerca abbastanza battuta nel Novecento, più recentemente mi vengono in mente i macchinari di Norma Jeane o le soluzione stile “fai da te” di Alberto Tadiello. Se pensiamo al corpo come dimensione fisica e mentale, tutti noi siamo sempre sottoposti a pressioni, gonfiamenti, lanci ecc. Forse troppo didattico e prevedibile all’interno di uno schema ben preciso. Anche lui dovrebbe cercare di mettersi maggiormente in discussione (questo consiglio va bene per molti artisti giovani e senior della Galleria Continua).
Voto 5
Marinella Senatore
Fresca vincitrice del Premio Maxxi con un progetto abbastanza scollegato da altri lavori precedenti, più concentrati sull’idea del cinema. Il nuovo progetto chiama persone e associazioni al museo intorno a una rotonda dove tutti possono diventare “professori” (di non si sa bene che cosa). Trascinando persone al museo e rivitalizzando questo luogo per un breve periodo, vince un premio. Ma non è certo questo il metodo. Né per trovare nuovi “professori” né per portare persone al museo. Il metodo sembra quello dell’happening Anni Settanta, dove tutto può andare. Quando invece oggi servirebbero metodi efficaci per fare le differenze fra le “produzioni” e non nuove piattaforme per contribuire alla sovrapproduzione in cui siamo immersi. L’avevamo lasciata alla Biennale di Venezia 2011 con un’opera molto retorica sui lavoratori di Porto Marghera. L’arte così frontalmente impegnata rischia di diventare una formica nella giungla, senza avere la consapevolezza di esserlo. Sembra che molti artisti non abbiano le idee chiare, e credo che non sia colpa loro quanto di un sistema formativo incapace e di un sistema critico totalmente assente, che pesca fra questi artisti solo quando ha bisogno di un ingrediente per la propria “torta-mostra-biennale”. Lo stesso collezionismo non è più disposto a farsi mettere il fumo negli occhi da certi premi e da certi curriculum vitae. O forse è disposto quando deve arredare casa in modo cool e veloce. Ma sappiamo che il rischio “Ikea evoluta” è sempre in agguato nel sistema dell’arte.
Voto 4
Francesco Simeti
Noto fin dagli esordi per lavorare con la carta da parati, sembra sempre più affascinato da un certo decorativismo che vuole anche essere concettuale. Sicuramente è coerente negli anni. Quindi, davanti alla carta da parati, dal pattern pieno e ripetitivo, possiamo vedere oggetti inaspettati che provengono dallo stesso immaginario della carta da parati. Per quanto ci sia cura e attenzione, il rischio Ikea evoluta è altissimo. Non a caso il primo lavoro presentato sul sito dell’artista mostra le ricche decorazioni apportate alla casa di Lugano dell’art dealer Diego Cassina. Non importa quanto l’immaginario riportato sul wallpaper sia raffinato e colto, si tratta di un gioco manierista dove l’ennesimo artista partecipa alla sovrapproduzione di citazioni e riferimenti. Oggi sono i Sumeri, domani Harry Potter e forse poi le antiche civiltà cinesi. Una sorta di Ikea evoluta per ricchi.
Voto 4
Alberto Tadiello
Partendo da materiali comuni, spesso prelevati dall’immaginario del “fai da te”, Tadiello arriva con perizia di assemblaggio a opere che coinvolgono il suono e più recentemente una certa pittura informale (eseguita con cere e tanto altro, su carta vetrata). Altre volte lavora direttamente sulle casse di amplificazione e altri supporti, ricordando molto da vicino il percorso Anni Novanta di Carsten Nicolai. Il risultato è ancora quello di una post-postproduzione, nella quale il giovane artista remixa pratiche e codici quasi per dare sfogo a fascinazioni e ossessioni personali. Questa verve ossessiva è sempre molto presente nell’uso di materiali e soluzioni che sembrano straripare e aggredire lo spettatore. In realtà l’opera rimane molto imbrigliata e l’atteggiamento valoroso che viene suggerito è quello di un “fai da te” fuori controllo, rispetto certe ossessioni da appendere nella nostra cameretta adolescenziale. Per quanto rigoroso e coerente, il suo percorso porta a opere sempre spuntate, anche quando mostrano un trionfo di lame assemblate alla parete.
Voto 4,5
Alessandra Tesi
Famosa per le sue riflessioni su come il materiale di supporto alla proiezione video possa alterare la percezione della luce. Tra le promesse italiane Anni Novanta, poi un po’ arenata su questa unica riflessione declinata in tanti modi e su tanti diversi supporti. Troppo debitrice di un’arte impegnata sul fronte dell’effetto speciale e di un certo fare contemplativo. Troppo poco per esprimere un giudizio completo.
s.v.
Grazia Toderi
Affascinata dalle visioni notturne di città dall’alto. Grandi video dalla valenza pittorica. Molto aiutata da buone pubbliche relazioni, ma veramente troppo poco per argomentare un giudizio completo. Se cambiasse il supporto avremo opere di Alessandra Tesi.
s.v.
Santo Tolone
Anche lui fa parte del gruppo che ho definito “New Arcaic”: giovani artisti che, prima di tutto formalmente, fanno diretto riferimento a codici e atteggiamenti dell’arte moderna sviluppata a partire da inizio Novecento fino agli Anni Settanta. Questi riferimenti sono spesso rielaborati con una certa verve, che si pone tra l’ironico e colui che si prende troppo seriamente. Quasi un atteggiamento reazionario e arrendevole, sintomo di una generazione “debole” e tenuta in scacco dalle generazioni precedenti. Non c’è nulla di male nel rielaborare e nell’apprezzare modalità dirette e genuine, come fossimo un “Giovane Indiana Jones” che scava e rimane affascinato da un vessillo risalente all’epoca romana. Basta esserne consapevoli: in questo caso l’artigianato dell’arte contemporanea subisce il fascino per una certa moda del vintage. Penso alla “moda” come a quel qualcosa che Giorgio Agamben contrappone a ciò che definisce “contemporaneo”.
Voto 4,5
Diego Tonus
Giovanissimo artista fortemente allineato e preparato rispetto a un diffusissimo linguaggio mainstream e internazionale. Inoltre ha capito subito (perché ormai è chiarissimo) l’importanza delle pubbliche relazioni, preferibilmente ricercate sulla scena internazionale piuttosto che in Italia. Le sue opere sono un artigianato dell’arte contemporanea, forse veramente troppo imbrigliato in codici e linguaggi accademici. L’artigianato dell’arte contemporanea non è una cosa negativa, semplicemente bisogna esserne consapevoli. Ed essere consapevoli delle opportunità e delle possibilità che questo artigianato potrebbe precludere.
Voto 4
Gian Maria Tosatti
Per usare termini d’altri tempi, “protagonista della scena romana”, quasi in contrapposizione al leggero offuscamento del vivaio milanese dei garuttini. Buona energia e voglia di fare. Ma anche lui reitera una certa retorica passatista, impegnata a recuperare, restaurare e operare piccoli spostamenti in luoghi e oggetti che provengono dal passato. Come una sorta di archeologo, sembra un Giovane Indiana Jones impegnato in una preparata archeologia del ready made. Meglio quando l’opera diventa l’espediente per instaurare una relazione reale e duratura con la comunità di riferimento (progetto a Roma del “telescopio” rivolto al cielo). In una situazione di crisi e confusione, il giovane artista cerca appoggio in valori e codici “sicuri”: come criticare il meticoloso recupero della storia? A scuola ci insegnavano che la Storia è importante. Inoltre stride quanto le numerose dichiarazioni dell’artista siano testimoni di uno scollamento fra intenzioni e realizzazione concreta del progetto. Una buona energia del fare che andrebbe canalizzata in modi per risolvere il presente piuttosto che nella rivisitazione di cose che provengono dal passato. La rielaborazione del passato è un modo ormai assodato per affrontare il presente, e il rischio è che questo modo venga invaso da una retorica che lo disinnesca automaticamente. Le giovani generazioni dovrebbero passare da un’elaborazione della crisi, finalmente, a una soluzione della crisi. Mentre invece sembrano mantenute in ostaggio dalle generazioni più anziane. Questa problematica generazionale trova nell’arte una cartina di tornasole per una condizione che in Italia travalica il ristretto mondo dell’arte. Parlando più in generale, la “Nonni Genitori Foundation” sostiene i giovani in modo sentimentale e deregolamentato, diventando un ammortizzatore sociale fasullo che crea più danni che altro.
Voto 4,5
Luca Trevisani
Sviluppa da tempi non sospetti una sorta di feticismo per i materiali e la sovrapposizione di livelli. Affascinato dalla trama che sistematicamente mostra errori e situazioni in bilico. Anch’esse ricondotte nell’opera. Troppo debitore di questo feticismo, sempre ai limiti della rielaborazione grafica. Ultimamente si è cimentato in un film, dove si concentra sui passaggi di stato della materia. Una fascinazione che rischia di rimanere molto personale, o accessoria per lo spettatore. A mio parere meglio quando sembra un John Bock mediterraneo. Anche lui rischia di finire in una sorta di preparato artigianato dell’arte contemporanea. Per certi versi didattico nel non voler essere didattico.
Voto 5
Patrick Tuttofuoco
Artista di cui mi sono occupato molto in questi cinque anni, perché il suo caso è significativo rispetto alla carriera del giovane artista italiano negli ultimi vent’anni. Anche lui garuttino di prima generazione e quindi tra le promesse dell’arte italiana di fine Anni Novanta, quando in Italia si iniziava a intuire l’utilità dell’arte contemporanea come volano per la comunicazione, l’immagine e un possibile investimento economico. Esordisce con un certo fare giocoso, dove organizza contest per far realizzare ad alcuni adolescenti il motorino dei sogni; poi progetta veicoli-bicicletta colorati e originali; invita gli spettatori al Padiglione Italia 2003 a spingere grandi sfere colorate e così via. Negli ultimi anni sembra cambiare completamente e di quegli esordi rimangono solo i colori. Come fanno in molti, anche fra i curatori, prende la citazione di un libro (sulle personalità multiple) e inizia a fare maschere colorate su supporti che sembrano grandi asciugamani colorati e plastificati. Nei comunicati stampa troviamo prevedibili digressioni sul tema dell’identità, come se bastasse fare una maschera per parlarne in modo significativo. Il rischio è sempre quello dell’Ikea evoluta che carica le opere di un valore arbitrario, senza che le opere stesse siano testimoni di percorsi incidenti. In definitiva “valore” significa prezzi alti. Questa pratica funziona solo sopra torri d’avorio o per arredare la propria casa in modo ostinatamente sofisticato. Critici e curatori stanno perdendo opportunità, rispetto al bisogno di ritrovare un’idea di valore maggiormente robusta e autentica.
Voto 3,5
Ian Tweedy
Cresce in una base Usa in Germania, e questo immaginario da Guerra Fredda irrompe troppo frontalmente nel suo lavoro. Per quanto la fascinazione di questo immaginario sia autentica e sincera, il rischio è di diventare un “Giovane Indiana Jones” alla prese con rielaborazioni della storia e dei materiali della storia. Quando il giovane artista si fa risucchiare dal fascino per l’immaginario X, è come se il medico peccasse di nozionismo, a discapito di esperienze e modalità di lavoro brillanti.
Voto 4
Enzo Umbaca
Sempre pungente con un fare multi-mezzo, capace di spaziare fra i temi e i materiali più disparati. Un ecclettismo cleptomane tipico degli Anni Novanta. Si potrebbero lamentare apparizioni molto rare. Il rischio è perdersi, non si sa se per responsabilità propria o di un sistema incapace a formare e valorizzare. Un grande calciatore in mezzo al deserto può fare poco.
s.v.
Nico Vascellari
Uno degli esempi più significativi del giovane artista italiano 2.0. Pochi anni fa si contavano un gran numero di mostre personali in Italia in pochissimo tempo. Un preparato misto tra Matthew Barney e John Bock, con una spruzzatina di Arte Povera e di concertino punk per fare sentire al pubblico più “contatto”. Esempio di come il sistema dell’arte italiano fosse capace di idolatrare forme artistiche ancora deboli e non mature, costringendole a una cristallizzazione precoce. Cosa farà Vascellari fra vent’anni? Già negli ultimi anni ha alternato il concertino punk dentro il museo alla catalogazione delle parti di un nido prelevato dal bosco. Poi paglia, rituali, legno bruciato, calchi ottenuti da processi nel bosco (mi ricorda un certo Giuseppe Penone). Anche per lui una sorta di Arte Povera 2.0. Anche per lui una preparata forma di artigianato, che deve esistere, soprattutto per un mercato che, almeno fino a qualche anno fa, era goloso di nuovi presunti talenti.
Voto 4
Vedovamazzei
Anche loro, con Enzo Umbaca, dimostrano una bella agilità cleptomane, ma questa volta più efficace, coerente e rigorosa. Qualche piccola caduta in periodi meno recenti, ultimamente maggiormente a fuoco. Anche loro sicuramente vittime di un sistema Italia incapace di promuovere, sostenere e valorizzare soprattutto all’estero. Potrebbero dare di più se messi nella condizione giusta.
Voto 6
Francesco Vezzoli
Studia a Londra e ammette il fascino per la generazione di Hirst e degli YBAs – Young British Artists. Finisce per proporre una Pop Art Vintage, che riprende vecchie glorie/cariatidi, mischiandole con il glamour hollywoodiano e le delicatezze cool da pomeriggio con la nonna. Un misto che appunto restituisce un gusto del vintage estremamente di moda in diversi settori. Troppo debitore della cultura pop in operazioni facili facili e didattiche: prendiamo Lady Gaga, facciamola limonare con Michael Douglas mentre il padre Kirk li inonda di fiori in una location ispirata all’antica Roma (il padre Kirk è interpretato dall’ultima star uscita da Hollywood, non importa chi sia).
Voto 4
Luca Vitone
Decisamente poco a fuoco. Qualche anno fa ricordo una serie di opere sui gruppi nomadi, poi le tradizioni locali, poi opere con impresso lo smog e le ceneri prodotte in un dato territorio; e infine un profumo – devo dire molto evanescente – al Padiglione Italia 2013, che doveva restituire l’odore dell’Eternit, e quindi il dramma legato al territorio del Monferrato. Anche in questo caso l’arte impegnata sembra ancora una volta una formica in una giungla. Per i dipinti fatti con le polveri di un dato territorio, l’artista dichiara che tale pigmento non vuole celebrare la pittura, ma si tratta di una scelta per annullarla e ferirla. Riguardando il suo percorso, emerge appunto una certa inconsistenza, non si capisce bene se per scelta o meno.
Voto 4,5
Sisley Xhafa
Insieme ad altri artisti albanesi, emigra in Italia negli Anni Novanta, dove si forma e ottiene grossa visibilità. Applica all’arte contemporanea le tecniche e il punto di vista del clandestino, con ottimi risultati di esordio. Poi negli ultimi anni si trasferisce all’estero e il suo lavoro sembra perdere forza e intensità. Forse il clandestino è stato integrato e ha perso ragioni e urgenze. Riesce comunque a fare sporadiche apparizioni internazionali grazie a buone pubbliche relazioni, anche se con opere deboli e pretenziose rispetto ai fasti degli esordi. Ultimamente lo ritroviamo a lavorare nella sede francese della Galleria Continua, anche qui debole. Poi partecipa al Padiglione Italia 2013 con l’opera dove lo spettatore saliva su un albero per farsi tagliare i capelli. Nella sua ironia graffiante (termini un po’ Anni Novanta) l’idea poteva funzionare meglio se presa da sola, come una sorta di Padiglione Albanese; nel calderone del Padiglione Italia, curato da Bartolomeo Pietromarchi, il lavoro sembrava una scelta eccentrica e surreale un po’ fine a se stessa.
Voto 4,7
Luca Rossi
http://whitehouse2014.blogspot.it/2014/04/volete-la-quarta-e-ultima-puntata-prima.html
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