L’anarchico non è fotogenico. Conversazione con Quotidiana.com

Paola Vannoni e Roberto Scappin hanno presentato alla 17esima edizione del Festival Inequilibrio di Castiglioncello il primo capitolo della trilogia di spettacoli dedicati alla “buona morte”. Li abbiamo intervistati.

Le eutanasie negate: perché questo tema?
Pensiamo che l’agonia in tutte le sue declinazioni si contrapponga a un concetto di civiltà, forse anche al concetto di etica. Inizio e fine sono traguardi irrinunciabili.
Ma se l’inizio di ogni cosa è accolto quasi sempre come naturale, la fine rappresenta ancora un fatto sconvolgente perché non è traducibile in nessuna esperienza.
Così se l’eutanasia riferita al “fine vita” è ancora ostacolata dallo scudo ideologico imbracciato dal Vaticano e da politici sempre pronti a non disattendere il potere “spirituale”, intravediamo nella società civile tutta una serie di situazioni e figure agonizzanti tenute in vita dalla convenienza, dal compromesso, dal conformismo fine a se stesso. Il suicidio non è tanto il frutto di un’impazienza ma piuttosto un innato slancio pioneristico. Bisogna dare un’opportunità alla pena della vita. L’importante è la qualità di ciò che si fa, non quanto dura.

Ancora una volta articolate la vostra proposta in una trilogia.
C’è sempre più di una possibilità per affrontare un tema attraverso il linguaggio teatrale. Come una giornata può essere attraversata da diversi umori e temperature così uno stesso soggetto rimanda a riflessioni che necessitano di spazi temporali e estetici differenti uno dall’altro.
In realtà ci sarebbe stata materia anche per una quadrilogia, ma fedeli al concetto di buona morte ci siamo fermati a tre.

Quotidian.com sul palco - foto Angelo Maggio

Quotidian.com sul palco – foto Angelo Maggio

Come avete costruito, in concreto, questo primo capitolo?
La modalità è sempre la medesima. Ci mettiamo in prova davanti a una telecamera e intercettiamo sucessivamente il testo da una selezione dei dialoghi che ne scaturiscono.
Nel comporre la drammaturgia abbiamo riflettuto su quale fosse nel nostro immaginario la figura che poteva relazionarsi con maggiore naturalezza con il concetto di morte, di finalismo, e il cow-boy ci è sembrato potesse essere l’interprete più efficace del nostro testo, porgendoci anche l’impronta di una fisicità che corrisponde alla nostra impassibilità con l’aggiunta di altre coloriture.

Portate avanti “una ricerca estetica e di linguaggio che procede nell’essenzialità, mai nel rifiuto, della parola”. Viene in mente Samuel Beckett, ovviamente. Chi altri?
Teatro per noi è soprattutto parola, che nel suo potere evocativo sa farsi corpo, immagine.   L’essenzialità attiene al tentativo di portare all’estremo la tensione visiva, emotiva, scarnificando la drammaturgia di ogni elemento di rassicurante disturbo.  Crediamo che il teatro contemporaneo debba restituire quel senso che del teatro si è smarrito, vuoi per una tradizione che ha fatto perdere di credibilità anche alla parola più alta, vuoi per una parte della ricerca che ha creduto che la parola fosse solo sinonimo di menzogna. “Come facciamo ad alzarci con disinvoltura ora che ci siamo seduti?” È necessario essere essenziali in modo tale da evitare inutili imbarazzi ad entrambe le polarità, pubblico e addetti ai lavori sul palco. L’essenziale lo possiamo immaginare e riprodurre, l’ininfluente, l’irrisorio ha costanza materiale che troviamo inutile duplicare.

A proposito di Beckett e dei suoi “dramaticules”: in questo nuovo lavoro riaffiora una sorta di ironia socratica.
Già nella precedente Trilogia dell’inesistente poniamo noi stessi come oggetto d’indagine, di denuncia.
Disseminare la scena di interrogativi, mettere in ridicolo i dogmi, condividere con lo spettatore il nostro sguardo attonito sul mondo, ci è sembrata la forma più efficace di coinvolgimento, ormai quasi una prassi, per sollecitare una riflessione che si attivi anche oltre la durata della rappresentazione. E poi facciamo il possibile per sfuggire alla scrittura di una orribile prosa, dalla quale potremmo anche noi non essere immuni. In effetti i nostri testi sono una sorta di dècoupage, degli story-boards, dei progetti sonori, un esperimento in compagnia dell’inusuale

Più che in altri vostri spettacoli, qui il corpo è usato in maniera didascalica rispetto al testo: lo illustra.
Il tentativo non è quello di illustrare quanto di mettere in luce come anche il corpo abbia acquisito una sorta di sinonimi gestuali di cui facciamo uso nel dialogo quotidiano. Una sorta di codice ripetitivo che si innesca nonostante noi.
In altri momenti invece il gesto è completamente slegato dal discorso, a cui si vuole contrapporre con coreografie elementari e meccaniche,  prive di quell’ostentazione che costituisce la cifra di tanto teatro, non solo di tradizione.

Paola Vannoni

Paola Vannoni

Voci al limite dell’udibilità. Prosciugamento. Scarnificazione della forma-dramma. Sembrate mossi dal desiderio di turbare il silenzio il meno a lungo possibile.
È forse il silenzio stesso a provocare turbamento, nell’assenza di qualcosa che possa colmare quel nulla che quotidianamente ci viene occultato dietro false immagini.
Quel silenzio è un tempo che si concede a se stessi e allo spettatore per riflettere sulla parola detta e per accogliere quella che verrà.
Nello spazio tra le parole c’è altro. Il solito pensiero indicibile o forse qualcosa di più. Nel silenzio la discussione viene portata avanti, le nostre pause fanno da sostegno alla traduzione. Vorremmo sempre essere uditi, ma le strategie della silenziosità sono infinite.

La dimensione metateatrale è quasi onnipresente. Non si corre il rischio, con un pubblico sempre più composto da addetti ai lavori, di creare una facile complicità basata su un sistema di significati condivisi?
Se il pubblico del contemporaneo è sempre più composto da addetti ai lavori la responsabilità è di chi, questo teatro, ha voluto e vuole relegare ai confini della visibilità, sottraendolo all’attenzione di un pubblico potenzialmente interessato ai nuovi linguaggi del contemporaneo.
In questo senso condividiamo la tua osservazione nella misura in cui, non per nostra scelta, non ci è consentito di condividere questi significati con un pubblico più allargato.  Ma non è su questo livello di complicità che poggiano le fondamenta del nostro lavoro, bensì nella condivisione di interrogativi universali quanto banali all’origine delle nostre inquietudini.

I due cow-boy in scena ragionano su “un teatro senza spettacolo”. Esso è propriamente possibile?
Sì, se possiamo immaginare una cucina senza friggitrice,  un viso senza trucco, un cagnolino senza cappotto, una vasca senza idromassaggio, una tartina senza maionese… è la parola che da spettacolo. Il nostro teatro è uno spazio di piacere estetico occupato dall’umorismo, dove la battuta spontanea, inattesa, apre un varco nella repressione altrui. In fondo quello che noi cerchiamo di  riformare è la comica. I nostri cow-boy non danno spettacolo e evitano le file indiane.

“Mi piacciono i finali che non finiscono, dove la storia continua senza di me”: quali riferimenti di pensiero stanno dietro a una frase del genere?
Essere protagonisti di un finale è emotivamente troppo eccentrico per chi ha la tendenza a osservare con distacco il reale.  Riferito poi al tema dell’eutanasia, sarebbe spropositato pretendere che dopo di noi la storia si arresti. Eppure è forse proprio questo aspetto della morte che non riusciamo ad accettare, che tutto continui senza di noi.

Michele Pascarella

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Michele Pascarella

Michele Pascarella

Dal 1992 si occupa di teatro contemporaneo e tecniche di narrazione sotto la guida di noti maestri ravennati. Dal 2010 è studioso di arti performative, interessandosi in particolare delle rivoluzioni del Novecento e delle contaminazioni fra le diverse pratiche artistiche.

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