Contemporaneo, patrimonio, stupidità

Proviamo a immaginare uno scenario: cosa accadrebbe se una mattina, contemporaneamente, scomparissero dall’Italia tutti i musei, le biblioteche, le librerie, le gallerie? Poco o nulla, con ogni probabilità. A parte gli immancabili appelli di intellettuali infuriati, e le proteste di minoranze probe e coscienziose, la maggior parte degli italiani quasi non se ne accorgerebbe, o commenterebbe facendo spallucce.

È uno scenario impossibile, da fantascienza? Neanche tanto. I servizi dei telegiornali su preziose biblioteche mandate avanti solo da direttrici volontarie che lavorano del tutto gratis ormai da anni, o su monumenti antichi che versano nel più totale e umiliante degrado costituiscono ormai, da soli, un vero e proprio genere televisivo: con la colonna sonora melodrammatica che accompagna, nella più completa indifferenza dello spettatore, queste scene e questi racconti dell’orrore, ripresi con uno stile finto-sporco da cinéma-vérité e la voice over contrita della giornalista che ci informa indignata dello stato scandaloso in cui versa il tal mosaico tardoantico o quell’altro scavo romano.
È anche fiorito un nuovo-vecchio genere letterario sull’argomento, in cui la difesa del patrimonio equivale automaticamente a una presa di coscienza (civile, ça va sans dire) dello stato disastroso in cui versa la nazione. È un’altra nostra attitudine perniciosa, eredità di un passato secolare ma opportunamente aggiornata attraverso le retoriche “del web”. Queste retoriche deresponsabilizzano il lettore-fruitore nel momento stesso in cui gli consegnano un’identità civile “già pronta”, ready made, dunque impossibile per definizione. Non ti è richiesto nessun investimento cognitivo, mentale, non devi affrontare nessun processo faticoso e doloroso di autocostruzione e di reale cambiamento: se sei d’accordo (e lo sei: come potresti non esserlo?) dì di sì, aderisci all’appello, recita convinto insieme a noi che occorre salvare e tutelare patrimonio e la cultura del Paese (alla fine, che ti costa?).
È lo stesso meccanismo in base al quale il rapper di successo, che si è abilmente costruito negli ultimi anni l’immagine di “artista-impegnato-che-però-sa-come-si-parla-con-i-teenager”, afferma convintamente che la visione di Accattone e la lettura di Gomorra gli hanno cambiato la vita” (al punto, nel primo caso, da scegliere un deciso bianco e nero per la copertina del nuovo album). Anche qui, può anche essere, per carità, non diciamo di no; ma il principio è quello dell’adesione tout court, del ‘mi piace’ facebookiano, e non dell’elaborazione. Della critica dell’esistente.

Jeff Koons a Versailles

Jeff Koons a Versailles

Gli artisti contemporanei e le opere del passato remoto sono interessati dal medesimo processo “stupidificante”. Da una parte, da circa vent’anni gli artisti – soprattutto quelli più giovani – hanno cominciato ad apparire perfettamente intercambiabili tra loro: è come se la ribellione culturale, in quanto atteggiamento di vita mentale e approccio al mondo, fosse stato completamente estirpato dalle esistenze di un paio di generazioni.
Dall’altra parte, anche il patrimonio artistico e culturale viene sottoposto a una radicale riconfigurazione interpretativa: a una revisione complessiva, nel suo ruolo e nella sua funzione. Brutta parola, ‘patrimonio’: peccato, perché non lo sarebbe in base alla sua origine etimologica, e lo è diventata invece, in seguito alla torsione economicistica dell’ultimo trentennio. ‘Patrimonio’, ‘patrimonium’ deriva infatti da ‘pater’: è ciò che ci viene dal padre, ciò che io eredito da mio padre. La trasmissione, l’ereditarietà è dunque al centro esatto della civiltà: la tradizione culturale si chiama così, dopotutto, perché viene tramandata, trasmessa da un’epoca all’altra; e se ci pensiamo, ‘heritage’, la versione inglese di ‘patrimonio’, rimanda più esattamente e più direttamente al concetto di eredità.
Comunque. Il patrimonio storico-artistico ereditato dal passato e la produzione culturale contemporanea vengono sottoposte entrambe a una sorta di terapia d’urto, descritta in questi termini da Jean Clair ne L’inverno della cultura: “Le istituzioni museali più prestigiose […] dovevano diventare gallerie dove esporre la creazione ‘vivente’. In uno slancio congiunto, questi luoghi di memoria che avevano finito per perdere il loro senso dimenticando le proprie origini, hanno tentato di sottoporsi a una cura di ringiovanimento imponendo, contro ogni buon senso, l’idea che le creazioni più audaci, più scioccanti, più immonde, spesso le più idiote, dell’arte odierna s’inscrivevano, sotto il marchio distintivo di ‘arte contemporanea’, nella storia dei capolavori del passato. Non potendo continuare la propria storia che […] gli era preclusa, il museo è diventato così l’agente, il promotore, l’impresario di una storia fabbricata”.
Ogni tradizione è anche, sempre e comunque, una traduzione. La realtà è che, come tutti sappiamo, alcune traduzioni sono proprio ignobili.

Christian Caliandro

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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