La patente a punti
L’introduzione della patente a punti dovrebbe essere estesa a tutti i rami della vita sociale. Peccato che solo la guida dell’auto goda di questa norma. Bisognerebbe estenderla ai politici. Per ogni infrazione, tanti punti in meno, fino all’esclusione permanente dalla gestione della cosa pubblica, che nel caso italiano spesso converge con il bene culturale.
Forse conviene far adottare il nostro patrimonio culturale ai musei di altri Paesi. Ad esempio, dare la Valle dei Templi di Agrigento a un museo straniero e chiedere in cambio che si accollino lo smantellamento delle ville costruite a ridosso dei templi e biglietto ridotto o gratis per gli abitanti del territorio e una percentuale significativa sul ricavato. Invece di consegnarla a società private italiane (nel caso specifico, Nuove Muse, che ha trattenuto per sé il ricavato che spettava alla Regione Sicilia – 19 milioni di euro – col silenzio dei politici). Oppure dare in gestione Pompei a un altro Stato, ma chiedere in cambio la manutenzione, il restauro e parte significativa del ricavato. (Paradosso: è grazie alla catastrofe provocata dall’eruzione del Vesuvio che Pompei s’è conservata. Ed è a causa all’imbecillità dei politici che Pompei rischia di scomparire un’altra volta.)
Dato che l’Italia è sommersa da una quantità di opere d’arte, e i politici non sanno come gestirle, è meglio darle in gestione agli altri prima che scompaiano del tutto o finiscano in mani fraudolente (il privato in Italia sta diventando sempre più sinonimo di saccheggio economico, civile e culturale). Su questo punto è sufficiente un paragone. Il magnate tedesco Würth, per il restauro della Cappella Palatina di Palermo – patrimonio dell’umanità -, non ha preteso nulla, soltanto la realizzazione di due mostre della sua cospicua collezione privata: Christo e Max Ernst. Due monumenti dell’arte del Novecento. Mentre l’industriale Della Valle, per il restauro del Colosseo, ha preteso i diritti d’immagine per 15 anni, “eventualmente rinnovabili”.
Sono due concezioni opposte della partecipazione del privato al bene culturale (o bene comune, espressione così in voga oggi). La prima rasenta il dono, che trova nel prestigio del mecenate la sua ragion d’esistenza. La seconda rientra nella logica del contratto: io ti dò i soldi, ma poi me li riprendo con la gestione privata. Cosa significa, dunque, “partecipazione” del privato al bene culturale?
Marcello Faletra
saggista e redattore di cyberzone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati