Gioni e il lato B del contemporaneo
Sbagliato criticare una mostra prima di averla vista. Immaginarla, invece, si può. Ecco allora impressioni (e aspettative) ingenerate dal “discorso di insediamento” con cui Massimiliano Gioni ha presentato a Roma "Il Palazzo Enciclopedico".
Basta riguardarsi in video Massimiliano Gioni che presenta la sua collettiva biennalesca, per farsi un’idea abbastanza precisa di ciò che ci aspetta, a Venezia, a partire da fine maggio. Intanto occhio alla location. Può sembrare un particolare di poco conto, ma aver tenuto a battesimo (leggasi: presentato alla stampa) una mostra sul contemporaneo così importante in una biblioteca (la Biblioteca Nazionale Centrale) e non invece nella sala al Ministero (per i Beni e le Attività Culturali) solitamente adibita a tale scopo, è già una dichiarazione d’intenti.
Sì, perché la biblioteca in questo caso funziona come luogo simbolico, proprio in termini di contenuti. Per due ordini di motivazioni: in primo luogo, perché Il Palazzo Enciclopedico si profila come una mostra costituita in larga parte da carte (a quanto s’è capito, abbonderanno anche oltre il preventivabile disegni, schizzi e scritti di vario genere: persino Carl Andre sarà presente nell’occasione con opere su carta); poi, in seconda istanza (ma le due caratterizzazioni si integrano vicendevolmente), perché la mostra, stando sempre alla presentazione fatta dal Nostro, sembra avere come obiettivo principale quello di imbastire una ricognizione/celebrazione inerente il fare artistico più appartato.
In tal senso non deve far storcere il naso il fatto che un curatore così giovane abbia dato tanto spazio ad artisti deceduti o anagraficamente anziani (sia detto per inciso: nell’Italia che fa fatica a puntare sui giovani, un 40enne alla Biennale di Venezia è una bella novità). Non c’è contraddizione in questo, per il semplice fatto che Il Palazzo Enciclopedico – sulla base delle dichiarazioni di Gioni – si presenta come una mostra concepita per gettare uno sguardo sulle figure dell’outsider, del visionario eterodosso, dell’autodidatta. E sono, questi, profili di artisti generalmente assorbiti vita natural durante dalle proprie idee e ossessioni, tipici di personalità complesse e poco arrembanti, tendenti a emergere (e giganteggiare) a poco a poco, quasi sempre in modo non canonico e/o a fine corsa, quando non a posteriori.
Certo, nell’ottica di garantire una cifra riconoscibile alla sua creatura, Gioni potrebbe aver esagerato nel tratteggiare i lineamenti di un’esposizione fortemente orientata in senso off, calcando un po’ troppo la mano. Ma intanto ha creato questo tipo di premesse, e vi è riuscito perché la pattuglia di irregolari con cui ha scelto di accompagnare visivamente il suo “discorso di insediamento” è apparsa più che connotante.
Non c’è che dire: mentre scorrono le immagini, e Gioni annuncia le linee-guida del suo progetto, sembra di assistere – a proposito di bibliofilia – alla presentazione di un libro illustrato che, sulla falsariga del celeberrimo studio di Jurgis Baltrušaitis sull’arte gotica, potrebbe intitolarsi Il Contemporaneo fantastico. Questo perché si ha la sensazione che si sia voluto gettare uno sguardo sull’attuale “cultura visiva” (questa l’espressione che è stata usata più volte), come dal di fuori e nel verso meno esplorato, nel tentativo di evidenziare la presenza di elementi attinenti al suo significato profondo, anche in istanze ed esperienze laterali o “notturne”, tendenti al cosmogonico o all’opposto di tenore solipsistico (in proposito si noti che, a fronte di più di cento artisti invitati, il numero di gruppi e coppie artistiche presenti in mostra è irrisorio).
Nel discorso di Gioni si susseguono parole di segno psych come ‘ossessione’, ‘delirio’, ‘allucinazione’, ‘inquietante’: e infatti, laddove nell’ultima edizione della Biennale lagunare erano i teleri di un pittore (per quanto storicamente fuori contesto come il Tintoretto), stavolta troveremo gli scritti di uno psicologo, Carl Gustav Jung, senza contare che l’immagine stilizzata scelta per fare da logo, più che a una mostra d’arte, fa pensare alla locandina di un simposio di psichiatria.
Insomma, con Il Palazzo Enciclopedico potrebbe aver trovato pane per i propri denti chi sognava una riflessione seria sul dark side del contemporaneo, utile a mostrare al cosiddetto grande pubblico, ma anche a molti addetti ai lavori, che la vulgata per cui la “fredda” arte contemporanea sarebbe antitetica al sentire romantico è in realtà una bufala. Compito arduo e affascinante, di quelli che meritano attenzione a prescindere, e di cui in effetti si sentiva il bisogno. Semmai, il rischio è che una scelta del genere venga annunciata come approfondita, salvo poi rivelarsi, alla prova dei fatti, anche in considerazione della mole dell’esposizione, di facciata, legata a mere esigenze di confezione.
Allo stato, metaforizzando, viene in mente un’immagine anch’essa – per così dire – “libraria”: Massimiliano Gioni che rivendica per sé un ruolo da Roberto Calasso dell’arte contemporanea, scegliendo di conferire – va detto: abbastanza a sorpresa – un profilo “adelphiano” alla mostra più importante della sua carriera.
Pericle Guaglianone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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