Facebook e l’erotismo mediale

Torna la rubrica “Il grande vetro” diretta da Antonio Maiorino. Che questa volta propone una interpretazione della “muta” di Facebook a partire da Philip K. Dick. Passando per centri di disintossicazione e filmografia fantascientifica.

Per l’ennesima volta Facebook ha cambiato pelle, tra le lamentele di chi aveva già fatto fatica ad abituarsi al “diario” e l’inattesa nostalgia verosimilmente destinata a essere assorbita, così come le critiche, nel brivido del nuovo che diventerà presto routine. Intanto, siamo trascinati noi stessi nella muta della creatura di Zuckerberg, avvolti in un’epidermide virtuale che il network, nemmeno così social – come lo spigoloso film di Fincher pare raccontare –, giocoforza ci costringe a indossare, con la fascinosità di un foulard di Louis Vuitton che credevamo fosse un orpello, e invece è diventato una necessità, una foglia di fico della sostanziale solitudine. Un corpo mediale, dunque, diramato – si spera – in direzione degli altri (altrimenti che social è?) un po’ come le propaggini dei Na’vi dell’Avatar di James Cameron.
Non c’è niente da fare, la protesi tecnologica, virtuale, ha un valore erotico: tanto più se si sviluppa sul versante relazionale, mettendo in “connessione” con gli altri, con i bit che viaggiano come spermatozoi. Per cui, è implicito che in Tron: Legacy di Joseph Kosinski, Sam Flynn trascini Quorra, ISO dal DNA digitale, nel mondo reale per fare l’amore con un impulso virtuale diventato carne, non così diversamente da come Rick Deckard fa l’amore con l’androide Rachel nel Blade Runner di versione dick-iana (Ma gli androidi sognano le pecore elettriche?, 1968).
Questa dipendenza erotica, una versione del piacere che pare amplificata dalla sua stessa intangibilità virtuale, fa venire in mente da un lato una notizia recentemente diffusa, dall’altro alcune performance e installazioni, recenti e non, dalle quale si evince come l’arte sia stata incline a raccogliere fermenti associati allo sfogo sociale consentito dalla tecnologia, ma soprattutto alle ambiguità di una re(l)azione che pare dilaniarsi tra ribellione e accettazione, possibilità di contatto e claustrofobia della gabbia digitale.

Stelarc, The 3rd Hand, 1976-80

Stelarc, The 3rd Hand, 1976-80

Ha fatto il giro del web, quotidiani nazionali compresi, la notizia relativa all’accordo tra un signore di Boston e la figlia 14enne: un contratto firmato da entrambe le parti e chiamato Facebook Deactivation Agreement che prevede la ricompensa di 200 dollari affinché l’adolescente si allontani dal social network per 5 mesi, interrompendo una frequentazione del sito che era diventata quasi ossessiva. La news fa pendant con quella della nascita di FAddict, website di Toronto che aiuta a disintossicarsi da Facebook: basta inviare 5 dollari con la promessa di restare lontani dal social network per un mese, ma si riavrà la quota indietro solo a patti rispettati, altrimenti i 5 dollari saranno devoluti in beneficenza a un Centro per le dipendenze.
Iniziative come queste, che implicano la necessità di una “guarigione”, ergo la constatazione di una deriva patologica della socialità virtuale, fanno ripensare all’ambivalenza di alcune performance che hanno affrontato la questione delle protesi mediali e della necessità di comunicazione attraverso il medium, talora costringente, della tecnologia. Nel 1968, stesso anno del romanzo di Philip K. Dick e di tutte le sue implicazioni sull’empatia nell’era della tecnologia avanzata, Rebecca Horn si fece fotografare con le braccia prolungate da due lunghe maniche rosse, come a poter annullare le distanze, eppure con un bendaggio incrociato dello stesso colore che finiva per paralizzarla. Similmente, Finger Gloves (1972), in cui l’artista indossa guanti prolungati fino a terra, esprime un allargamento dei confini del proprio corpo, un’uscita dal limite del sé, che però compromette la prensilità, finendo per diventare un impaccio anziché una rinnovata possibilità di contatto. Il discorso diventa apertamente tecnologico con The Third Hand (1976-80), dell’australiano Stelarc: la protesi si concretizza in un terzo braccio collegato al ventre e alle gambe tramite elettrodi, appositamente progettato da un ingegnere, e che l’artista impara a controllare nel corso dei mesi a venire.
Quello che interessa sottolineare – e Avatar di James Cameron, in questo senso, è una performance cinematografica da collocare sulla stessa linea – è che al connect yourself multimediale, orizzonte di ampliamento teorico delle possibilità di contatto, non fa riscontro una semplice “muta” della nostra pelle, ossia un ampliamento mediale, bensì una possibile migliore conoscenza di sé sottocutanea, una percezione più diffusa – ora che quel contatto si pratica per altre vie – dei fondamentali bisogni di comunicazione e socializzazione. L’uomo del futuro scopre cioè una radice sociale primitiva, la sua nuova biologia lo riporta a un codice genetico vecchissimo.

Rebecca Horn, Arm Extensions, 1968

Rebecca Horn, Arm Extensions, 1968

Ecco, allora, che le performance di Vito Acconci, sempre tese a studiare il confine tra socialità “malata” e fisiologica, patologia personale e fisiologico bisogno relazionale, mi sembrano quanto mai attuali: seguiva persone come uno stalker pedante, fino a inquietarle, superando le barriere di sicurezza; in Seedbed del 1972 (Galleria Ileana Sonnabend, New York) si pose sotto una piattaforma di legno, sulla quale camminavano le persone, mentre si masturbava e diceva ai passanti: “Devo continuare per tutto il giorno, devo coprire il pavimento di sperma, ciò che cade è il risultato della mia presenza e della tua riunite”. Anche qui mi sembra di poter associare, almeno per sensata suggestione, un’opera assai più recente. Penso in particolare alle installazioni di Mariko Mori in cui geishe e cyborg si offrono ai passanti, e segnatamente quel Play with me di Tokyo (1994), dall’emblematico titolo di pseudo-empatia, in cui la stessa artista si proponeva a mo’ di androide/Rachel dickiana, con una corazza di protesi e di propaggini robo-erotiche che in realtà svilivano l’offerta erotica, riducendola a una sessualità in-emozionale, come quelle della tecnologia avanzata e sterile di Barbarella di Roger Vadim, un film – anch’esso del ’68 – in cui si faceva l’amore col contatto delle mani grazie a una pillola super-avanzata.
In chiusura, una dichiarazione della stessa artista giapponese circa l’installazione multimediale Dream Temple può essere assunta a sintesi di questo multiforme intreccio tra reale e virtuale, territori della cultura ed espansioni immateriali, dispersione del contatto spirituale e rifondazione della spiritualità stessa: “Io cerco di andare oltre la dimensione fisica, di trascendere il tempo e lo spazio. È una posizione che risale alla tradizione giapponese. Il Dream Temple che ho costruito alla Fondazione Prada è uno spazio che funziona come le stanze da tè giapponesi, luoghi di trascendenza, di separazione dalla realtà: nei padiglioni del tè ci si lascia alle spalle il proprio status, la classe sociale, il passato. Sono luoghi neutri in cui si entra sia fisicamente che mentalmente. Luoghi simili all’Utopia descritta da Thomas More, che etimologicamente ci trasportava in un luogo buono, che allo stesso tempo era assenza di luogo” (M. Gioni & P. Ellis, La terra vista da lontano, in Intervista, estate 1999).

Antonio Maiorino

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Antonio Maiorino

Antonio Maiorino

Classe '84, laureato col massimo dei voti e menzione accademica in Storia dell'Arte a Napoli, nonchè in fase di abilitazione all'insegnamento nella medesima disciplina, è attualmente curatore della categoria Cinema per Infooggi, della rubrica Ace in the Hole per Cabiria,…

Scopri di più