La fotografia, che visione

Prosegue la pubblicazione di una articolata storia della fotografia per i tipi di Skira e con la direzione di Walter Guadagnini. Volumi ricchi di saggi e illustrazioni, per ripercorrere la vicenda e le infinite sfaccettature di un mezzo che ha rivoluzionato il modo di guardare il mondo. In occasione dell’uscita del secondo volume, abbiamo rifatto il punto con il curatore.

Sulle linee generali del progetto e sul ruolo della fotografia nella contemporaneità abbiamo già parlato in occasione dell’uscita del primo volume di questa storia della fotografia. Concentriamoci sul secondo volume e sui suoi contenuti specifici. Il periodo trattato va dal 1891 al 1940 e il sottotitolo recita Una nuova visione del mondo. Ci spiega la scelta di entrambi, ovvero scansione temporale e titolo?
La scansione temporale racchiude tre eventi cruciali per il mondo della fotografia: nel 1888 la Kodak mette in commercio il suo primo apparecchio, rivoluzionando così l’utilizzo e la diffusione del mezzo; nel 1890 viene pubblicato il volume di Riis, How the other half lives, che è una sorta di primo manifesto di quella fotografia di documentazione sociale che avrà un rilievo centrale nei decenni successivi; infine nel 1940 il MoMA di New York apre al proprio interno un dipartimento di fotografia, il primo dedicato a questo strumento da un museo di arte contemporanea: è l’inizio di un’altra rivoluzione, questa volta nella percezione della fotografia come forma d’arte a tutti gli effetti.
Il titolo è il più ovvio che si potesse immaginare: dagli Anni Venti agli Anni Quaranta non c’è fotografo o critico che non parli di “Nuova Visione”, in tedesco “Neues Sehen”, in inglese “New Vision”. È uno dei pochi termini che indicano un movimento, una tendenza generale, e non cambiano definizione da una lingua all’altra. La nuova visione è la grande frontiera della fotografia di ricerca per almeno due decenni, e trova la sua sintesi nella mostra Film und Foto di Stoccarda nel 1929, dove si trovano riuniti autori da tutto il mondo e di tutte le tendenze, da Weston a Man Ray, da Moholy-Nagy a Renger Patzsch, da Atget a Steichen. 

Nella sua Introduzione, afferma che questi sono gli anni “più importanti del XX secolo”. Perché?
Due guerre mondiali, la soluzione finale, Hitler e Stalin possono bastare come risposta?

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Man Ray, Le lacrime (lacrime di vetro), 1932, stampa ai sali d’argento

Uno dei cinque saggi che attraversano il volume è firmato da Clément Chéroux e tratta dell’amatorialità fotografica. Di cosa si tratta?
È un aspetto a mio parere particolarmente importante non solo della storia della fotografia e dell’immagine, ma anche un sintomo di come il procedere degli studi e il cambiare del gusto ci inducano a vedere le cose da prospettive sempre diverse. La storia canonica delle avanguardie – quella che intere generazioni hanno studiato a scuola, per intenderci – vuole che questi artisti nascessero come pura reazione all’accademismo del proprio tempo, sperimentando tecniche e modalità espressive inedite, inventando letteralmente nuovi linguaggi attraverso l’invenzione di nuove tecniche. Chéroux dimostra come gran parte delle tecniche più celebri e celebrate dei protagonisti delle avanguardie fotografiche – fotomontaggi, visioni dall’alto e dal basso, distorsioni e via dicendo – fossero da tempo a disposizione di tutti: appartenevano al bagaglio linguistico degli amatori, dei dilettanti “colti”. Ora, questa genealogia non toglie alcuna importanza al lavoro dei vari Man Ray, Rodcenko, Moholy-Nagy, ma permette di leggere il loro lavoro da un’ottica diversa, certo più stimolante e al contempo aderente alla realtà dei fatti.

Sin dalle prime pagine del volume si percepisce il respiro globale che assume la fotografia sin dalla fine dell’Ottocento: c’è l’indagine di Kazumasa Ogawa sulle geishe, Vittorio Sella che documenta la spedizione di Luigi Amedeo in Alaska e, all’inizio del XX secolo, il reportage di Edward S. Curtis sugli indiani d’America e quello di Arnold Genthe sulla Chinatown newyorchese. La fotografia, quella “documentaria”, rimpicciolisce il mondo?
Sì, senza ombra di dubbio. Già nel periodo appena precedente, uno degli elementi che più avevano fatto presa sull’immaginario collettivo era proprio la possibilità di vedere a casa immagini riprese a migliaia di chilometri di distanza. Ora, con la diffusione in particolare delle riviste illustrate, che negli Anni Trenta iniziano la loro stagione d’oro, ciò che era sorprendente si avvia a diventare quasi normale, e il mondo a diventare sempre più piccolo.

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Lewis W. Hine, Icaro in cima all’Empire State Building o Il ragazzo del cielo, della serie Empire State, 1931, stampa ai sali d’argento – New York, George Eastman House, International Museum of Photography and Film

Per affrontare la questione del nudo “artistico” prendete in considerazione l’opera di Germaine Krull. E la fotografia erotica? Ando Gilardi ci ha regalato una decina d’anni fa un saggio straordinario sulla Storia della fotografia pornografica
Purtroppo non si può dedicare un saggio a ognuno degli infiniti argomenti che la fotografia permette di trattare. La fotografia pornografica rientra in quegli usi extra-accademici, professionali e amatoriali che nel primo volume abbiamo trattato attraverso il saggio di Liz Siegel dedicato agli album fotografici, e nel secondo appunto attraverso il saggio di Chéroux: il metodo è invariato, i soggetti sono limitati dal numero delle pagine.

Il saggio su Propaganda e fotografia firmato da Ulrich Pohlmann è estremamente attuale. Viene in mente il manifesto elettorale “made in Photoshop” di Giorgia Meloni per le abortite primarie del PDL…
Confesso che anch’io, quando ho letto per la prima volta il saggio di Pohlmann – che peraltro si è occupato di questi argomenti a lungo, come tutti gli autori di questi volumi, è una scelta precisa quella di individuare sempre autentici esperti di livello mondiale sui singoli temi -, sono rimasto impressionato dalla sua attualità. Impressionato e un po’ inquietato…

Restiamo sulla contemporaneità a confronto con il periodo trattato. Il saggio di Gerry Badger sulla fotografia per le riviste fa venire in mente il fatto che oramai i photoeditor dei periodici pescano le immagini sempre più dal web. Come consideri questa evoluzione? Impoverimento o democratizzazione arrichente? E di conseguenza, che futuro ha la professione del fotoreporter?
Il sospetto è che la professione del fotoreporter come l’abbiamo conosciuta sia già finita, o stia finendo, e riguardi in ogni caso un numero davvero molto ristretto di persone. Bisogna abituarsi al fatto che le immagini – se considerate dal puro punto di vista dell’informazione, delle cosiddette breaking news, le ultime notizie – possono essere realizzate da chiunque, e vinceranno sempre le persone direttamente coinvolte nell’evento, perché ognuna di loro ha in mano un apparecchio in grado di scattare o riprendere immagini e inviarle immediatamente ovunque. Questo per quanto riguarda la copertura della notizia; è chiaro che se poi si vogliono l’approfondimento o la capacità interpretativa di un evento attraverso le immagini, allora si deve ancora ricorrere al professionista, checché ne dicano i cultori della fotografia di massa. Infine, pescare dal web per non pagare i diritti non è democratizzazione, trattasi di bieco risparmio sulla manodopera, ahimé.

Marco Enrico Giacomelli

la Fotografia. Vol. 2. Una nuova visione del mondo 1891-1940
a cura di Walter Guadagnini
testi di Gerry Badger, Clément Chéroux, Sandra S. Phillips, Ulrich Pohlmann, Francesco Zanot
Skira, Milano 2012
Pagg. 336, € 60
ISBN 9788857210315
www.skira.net/la-fotografia-5731.html 

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Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

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