Dal Giappone a Milano. Intervista al fotografo Makita Ryosuke 

Deve tanto alla luce occidentale il fotografo giapponese Makita Ryosuke. In questa intervista ci racconta del suo lavoro e dei suoi incontri. Måneskin inclusi

Appuntamento a Omotesandō in una giornata fredda ma luminosa, nell’elegantissimo quartiere della moda di Tokyo considerato una sorta di museo dell’architettura contemporanea en plein air, con i suoi stupefacenti edifici – come quello di Prada Aoyama (Herzog & de Meuron) o di Dior (Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa dello studio giapponese SANAA). L’ambiente minimal dello studio profuma di legno, Makita Ryosuke (Yokohama, 1976, vive e lavora tra Tokyo e Milano) sfoglia il book dei fotografi dell’anno Photographers File 2023 (Commercial Photo Series), aprendolo nelle pagine dedicate al suo lavoro. Un riconoscimento importante per il fotografo giapponese, che nel 2021 ha fondato la sua produzione Mofo Milano e nel 2022 Mofo Tokyo.  

Makita Ryosuke, Tokyo gennaio 2024. Photo Manuela De Leonardis
Makita Ryosuke, Tokyo gennaio 2024. Photo Manuela De Leonardis

Intervista al fotografo Makita Ryosuke 

Quando hai capito che la fotografia sarebbe stata il tuo futuro? 
Negli Anni Settanta mio padre faceva il designer di auto, lavorava per la Toyota. Ricordo di aver visto sin da bambino i suoi disegni che erano molto belli, inoltre a casa c’erano riviste di design di auto e di architettura alcune delle quali erano italiane. Quando da adolescente – ero molto viziato e sensibile, essendo figlio unico – dovevo scegliere se frequentare l’università, indirizzandomi verso le discipline artistiche, studi che in Giappone sono molto costosi, mia madre mi suggerì di andare all’estero per farmi le ossa. Proprio grazie alle riviste italiane che avevo continuato a vedere, decisi di andare da solo a Milano. All’epoca non era così costoso per noi giapponesi vivere in Italia. Avevo 19 anni quando sono arrivato a Milano, senza sapere una parola d’italiano, con l’idea di frequentare la scuola di design. Alla fine non l’ho trovata così interessante, invece sfogliando riviste come Vogue Italia e Grazia, rimasi sorpreso dall’alta qualità degli editoriali e delle fotografie. È stato allora che ho cominciato a pensare che mi sarebbe piaciuto fare il fotografo. Non avevo conoscenze tecniche, ma cominciai a lavorare come assistente per uno stylist di Milano. Ero affascinato dalla fotografia di moda. Così ho iniziato ad indirizzarmi verso questo genere, collaborando parallelamente con testate giapponesi occupandomi di un po’ di tutto, dal turismo al calcio. Mi divertivo molto.  

Sin dall’inizio ti interessava l’idea creativa della realizzazione del set in cui creare un rapporto tra la modella o il modello, l’abito e il contesto. Qual è stato l’elemento determinante che ti ha cambiato lo sguardo? 
Mi piacevano molto le foto un po’ strane di Carlo Mollino, in particolare le sue polaroid. Ma, quando ho scoperto Paolo Roversi è stata illuminante la sua sensibilità assoluta. Magari i vestiti non si vedevano bene ma le sue fotografie sono straordinarie! Mi aveva colpito anche il fatto che di solito accanto all’immagine è indicata la dicitura “photographed by” seguita dal nome del fotografo, invece nel suo caso era scritto “view of Paolo Roversi”.  

A Milano hai avuto modo di conoscere altri fotografi? 
Ho lavorato con il mio amico, il fotografo Andrea Buso. Intorno agli Anni Duemila c’era molto lavoro per i fotografi, si realizzavano tanti cataloghi ed io ero nell’ambiente di fotografi, stylist, make up artist. Capitava di incontrare tante persone. Una volta, in un laboratorio fotografico dove ero andato per sviluppare dei rullini, ho sentito un signore che gridava; era Oliviero Toscani! Milano, tutto sommato è una città piccola e camminando poteva succedere di incrociare personaggi come Giorgio Armani o Riccardo Tisci. A Milano prendevo l’aperitivo con amici stilisti e altre figure del settore, e da quelle chiacchierate si faceva progettazione. Tokyo, invece, è diversa. Non è così facile incontrare gli amici dopo il lavoro.  

La fotografia di Makita Ryosuke

Quando hai iniziato a definire un tuo stile, con le modelle e i modelli che si muovono con disinvoltura negli ambienti esterni? 
Sono stato cresciuto da mia madre, forse è per questo che mi piacciono le donne indipendenti e forti. Una visione che non va molto d’accordo con la società giapponese dominata dalla cultura kawaii che in italiano vuol dire “adorabile”, “amabile”. Come hai potuto vedere in giro, qui piacciono molto i cartoni amati, i peluche. Uno stile che si riflette anche sull’idea femminile di donne piccoline e fragili che, evidentemente, è molto diversa da quella delle donne europee. Il fatto di aver vissuto all’estero e di conoscere altre lingue, oltre al giapponese parlo l’italiano e l’inglese, ha cambiato un po’ il mio modo di pensare. L’Italia mi ha influenzato molto, ad esempio in termine di luci. Hai mai letto Libro d’ombra di Tanizaki? In generale il sole e la luce, a Milano, rimbalza tra i palazzi color crema, gialli, quindi è una luce dura e l’ombra è più forte rispetto al Giappone, dove i palazzi sono tendenzialmente grigi. Inoltre, i pannelli di carta delle abitazioni giapponesi sono di per sé dei diffusori di luce. I nostri occhi sono abituati ad immagini più “morbide” perciò anche per i lavori fotografici si preferisce una luce più pulita, meno diretta. Io, invece, “picchio” con la luce diretta, ottenendo anche un’ombra più intensa con cui cerco di definire i soggetti più liberamente.  

A proposito delle donne forti che ti piace fotografare, figure come l’attrice e modella Akaya Mihoshi o Naomi Watanabe – soprannominata la Beyoncé giapponese – incarnano anche un’idea di ribellione. Generalmente come ti relazioni al soggetto? 
Faccio un minimo di ricerca, ma poi essenzialmente mi piace scoprire la persona in una maniera più naturale attraverso l’intuito. C’è sempre anche molto rispetto per il soggetto. Quando si arriva sul set, nei primi quindici minuti, ci prendiamo un “cafferino”, chiacchieriamo, facciamo fitting. Intuitivamente capisco all’istante come mi devo comportare e quale sia l’approccio più appropriato. Si tratta, comunque, di fare sharing di due spazi, anche se si è in più di due.  

Da oltre un decennio hai iniziato a realizzare anche video. Tra i più recenti ci sono quelli del gruppo musicale dei Måneskin durante i loro tour in Giappone nel 2022 e 2023. Ti rapporti in maniera diversa al linguaggio dell’immagine in movimento rispetto all’immagine fissa?
Questi linguaggi mi piacciono entrambi, ma andare sul set con la macchina fotografica è più “leggero”. L’ultimo video dei Måneskin l’abbiamo girato nell’agosto 2023 ed è uscito a dicembre. Essendo un documentario non dovevo fare altro che seguirli, divertirmi con loro e catturare i momenti più belli. Invece, il video commerciale richiede una progettazione più complessa. Ho trascorso dieci giorni con i Måneskin, viaggiando con loro in Giappone e cercando di cogliere anche i momenti meno usuali, come quando Ethan compra una bevanda da una macchinetta, cosa molto diffusa nel mio paese. A Roppongi, poi, li ho portati ad un karaoke e gli ho fatto cantare le loro canzoni con la bassista che era stonatissima. Anche per il video, come per la fotografia, c’è sempre un senso di stupor mundi.   

Manuela De Leonardis 

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Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Dal 1993 è iscritta all’Ordine dei giornalisti del Lazio e dal 2004 scrive di arti visive per le pagine culturali del manifesto e gli inserti Alias, Alias Domenica, ExtraTerrestre.…

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