
Giorgio de Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978), artista controverso e amatissimo, torna ad abitare le sale di Palazzo Reale e un’antologica di 92 capolavori ne esalta il complesso ed ermetico universo. Otto sale, dall’allestimento sobrio e senza ingombri, ripercorrono acronisticamente l’intera evoluzione dechirichiana: dalla memoria alla Metafisica, dalle opere più realistiche (le tele ferraresi e le serie ville romane) alla Neometafisica.
Tra eterni ritorni e deviazioni sistemiche ‒ nonostante quelli che il curatore Barbero definisce “picchi di incoerenza visiva” ‒ qualsiasi stile e variazione de Chirico intenti, perfino in sincronia, rimane coerente, grazie alla sua forte personalità e alla devozione “alla somma libertà della sua ricerca artistica”.
IL TEMPO PASSATO E QUELLO INFINITO
Il confronto con il passato si muove su due canali, quello con i grandi artisti ‒ l’evidente debito nei confronti di Böcklin ma anche dell’eterno ritorno nietzschiano ‒ e quello con la propria eredità culturale-familiare che risale fino al mito greco (ne è una sintesi Morte del centauro), dove lo sradicamento è ri-assemblamento.
Ermetico e visionario, come disse Cocteau, “prende in prestito dal sogno l’esattezza dell’inesattezza, l’uso del vero per promuovere il falso”. Lo fa attraverso il silenzio assordante dei suoi quadri metafisici ‒ Les plaisirs du poète –, l’uso di elementi sapientemente consolidati ‒ statue, piazze, porticati – e figure cariche di tragico mistero. Anche quando l’interpretazione si fa gioco e autoesaltazione permane la vena metafisica: “Et quid amabo nisi quod aenigma est?”, scrive nel suo primo autoritratto.

TRA LIRISMO E DRAMMATURGIA
Tutta la sua sensibilità poetica da Ebdomero emerge da ogni aspetto: dai soggetti alla prospettiva, dalle scelte cromatiche al gioco di luci e ombre. De Chirico riesce a essere straordinariamente teatrale – e non a caso ha lavorato anche come scenografo. Per lui tutto è uno spettacolo misterioso, è la ricreazione di un mondo inventato e mai finito, fonte inesauribile di ispirazione.
I suoi manichini stringono il cuore e si ergono a complessa metafora di vicende mitologiche ‒come nell’Orfeo trovatore stanco ‒ quanto reali, svelando lo spettro tragico umano: il dolore, l’assenza, l’amore, l’incomunicabilità. Assurgono a ciò le muse inquietanti e le tele dedicate a Ettore e Andromaca. Ne esistono diverse versioni e sono sempre un’interpretazione della necessità inalterabile e del fato. In una di esse lei è una statua e lui un manichino, in un’altra sono entrambi due manichini in un’ultra-metafisica quinta scenica. Lei è pietrificata dal dolore dell’addio, lui è mosso dall’aidos (la vergogna/paura di perdere l’orgoglio) oltre che dai fili del destino di Ananke e così all’artista non resta che coglierli in un abbraccio senza conforto.
‒ Lucia Antista