
C’era una volta la terza saletta del Caffè Aragno. Nella penombra color tabacco, tra i tavolini di ferro e marmo, di quelli che ancora oggi si possono trovare in qualche vecchia, sparuta latteria trasteverina ‒ abbiamo negli occhi il dipinto-documento di Amerigo Bartoli, Gli amici al caffè ‒ nasceva e si alimentava la vita culturale, politica, artistica della Capitale. Vi si potevano incontrare Marinetti, Pirandello, Longhi, Cardarelli, i fratelli Bragaglia, Ungaretti, Gallian, de Chirico e Francesco Trombadori (Siracusa, 1886 ‒ Roma, 1961). Che partì da Ortigia (Siracusa), intorno al 1907, per frequentare la prestigiosa Accademia di Belle Arti di Via di Ripetta e divenne subito assiduo frequentatore del vivace Caffè assieme ai suoi compagni di corso: Oppo, Bartoli, Broglio e Guidi.
I MAESTRI
A Francesco Trombadori, che scelse Roma come patria elettiva e andò a vivere e a lavorare in quel piccolo eden degli artisti che era la suggestiva e alquanto misteriosa Villa Strohl-Fern, la Galleria d’Arte Moderna dedica oggi una mostra antologica, che per la prima volta ne delinea tutto l’itinerario artistico. Dalle prime pennellate rapide e guizzanti, secondo la maniera divisionista, alla riscoperta della tradizione nativa attraverso lo studio degli antichi maestri – Piero della Francesca, Masaccio, Antonello da Messina – appresi con uno sguardo a Cézanne e al contiguo Morandi. Quindi la prossimità alla Ronda di Cecchi e Cardarelli, a Valori Plastici di Broglio, al Magischer Realismus di Franz Roh, al Novecento di Margherita Sarfatti, alla Scuola Romana di Scipione e Mafai.

LA MOSTRA
Percorriamo e ripercorriamo le diverse sezioni tematiche della mostra con quella curiosità fanciullesca che accompagna sovente l’impaziente attesa di un dono. Vediamo i nudi composti, i ritratti d’occasione, le nature morte dall’impianto classicheggiante affacciarsi come da un ideale proscenio chiuso, sullo sfondo, da modeste, disadorne quinte teatrali. E quei paesaggi che diverranno, a partire dagli Anni Quaranta, tema dominante di una perseverata poetica del silenzio, ci appaiono essi stessi come studiate quinte scenografiche sorprese nell’istante indefinito e fatale che dà l’abbrivio alla commedia o al dramma. Trombadori giunge all’astrazione senza rinunciare alla rappresentazione, alla ricerca figurale, alla tangibile concretezza della percezione, nell’intento audace ‒ come ebbe a scrivere in una lettera a Vanni Scheiwiller con quell’espressione venata di metafisica che ha dato il titolo alla mostra ‒ di esprimere l’essenziale verità delle cose.
– Luigi Capano