Rovesciare la frittata. 20 anni di Disobedience Archive alla Biennale di Venezia

Tra i progetti più apprezzati durante l’edizione in corso della Biennale Arte in Laguna, il Disobedience Archive è stato creato a Berlino da Marco Scotini nel 2004 e figura come un focus all’Arsenale di Venezia. Ecco in che cosa consiste

C’è un’immagine iconica che raffigura tutti i popoli del mondo, in una vertiginosa varietà di culture, che si dirigono verso il cuore dell’impero coloniale bianco: il Crystal Palace di Londra. Siamo nel 1851 ma la “tentazione coloniale di gerarchizzare gli esseri e gli oggetti” sembra, ancora oggi, non essere mai scomparsa. Nell’attuale condizione neoliberista del tardo-eurocentrismo (Achille Mbembe), lo showbiz, sotto la guida di Adriano Pedrosa, della 60. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia, desideroso di criticare l’omogeneità e di applaudire la frammentazione e la differenza, ha aperto i battenti configurando una sorta di enclosure che riconferma, piuttosto che metterne in discussione, i suoi presupposti culturali.

Che cos’è il Disobedience Archive

Nel nucleo contemporaneo di quel “diorama di stati-nazione”, come il gruppo Art Not Genocide Alliance ha definito il sistema Biennale – fatto di dispositivi illusionistici che esibivano gli oppressi coloniali creando tassonomie, classificando in modo sintagmatico popoli e razze, tracciando gerarchie sociali che derivavano, per dirlo con Chandra Mohanty dall’«arroganza data dal privilegio e dall’universalismo etnocentrico» – Disobedience Archive (The Zoetrope) irrompe, nella griglia museale di questa edizione. Emerge come un cronòtopo circolare che ri-organizza geografie, soggettività e traiettorie politiche, attraversa temporalità molteplici e spazi affermativi di lotta scalarmente distinti, per far confluire nelle Corderie dell’Arsenale tutta la sua potenza di ribellione, quella propria dei processi di soggettivazione e antagonismo.
Strano rapporto quello di Disobedience Archive con il sistema italiano, che ancora fatica a digerirlo: un po’ come una moderna Antigone che ha vissuto l’esilio con il padre ma tornata a Tebe rivendica la politicità del suo atto. Dopo quasi vent’anni anni di esposizioni itineranti nelle maggiori istituzioni artistiche internazionali, la moltitudine di proteste documentate nel video-archivio, ideato e curato da Marco Scotini fin dal 2004, con la collaborazione diretta di attivisti, artisti e filmmaker, è cresciuto nel tempo raccogliendo istanze autonome di rivolta e conflitto. Archiviando le forme della disobbedienza sociale, aggiunge ora un ulteriore tassello alla genealogia del dissenso, a partire dai modi della sua rappresentazione dentro lo spazio dell’arte, tra prassi estetica e azione politica.

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Disobedience Archive (The Zoetrope), 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Photo Marco Zorzanello. Courtesy La Biennale di Venezia

Il Disobedience Archive alla Biennale di Venezia

Al tema dello spostamento geografico, etnico e identitario di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere risponde con due nuove sezioni “Diaspora Activism”, “Gender Disobedience”, che fungono da segnalatori di incendio: additano lo stesso luogo di una “critica” a cui Scotini sembra non voler rinunciare: la traiettoria anti-capitalista per negoziare la libertà contro il comando, dove il concetto di autonomia si applica a chi pratica una rottura.
Tra gli artisti e attivisti presenti sin dalle primissime apparizioni (ma qui con nuovi lavori) – Black Audio Film Collective, Marcelo Expósito, Angela Melitopoulos, Oliver Ressler e Zanny Begg, il collettivo americano Critical Art Ensemble, Pilot TV Collective, l’artista palestinese Khaled Jarrar, Hito Steyerl, Ursula Biemann, Carlos Motta– si sono aggiunte opere potentissime. Queste attraversano i confini transnazionali, dal subcontinente indiano (Tejal Shah, Anand Patwardhan), dall’Asia (Sim Chi Yin, mixrice, Thunska Pansittivorakul) alla periferia latinoamericana e il Sud globale (Pedro Lemebel, Jota Mombaça, Seba Calfuqueo) ospitando molteplici focolai d’enunciazione. Perché la disobbedienza si manifesta a differenti latitudini e in vari momenti della storia, ripercorrendo le trasformazioni dei movimenti post ‘68 (divenuti, nota Foucault, trasversali, non identitari, non gerarchici) fino alle sollevazioni più recenti, per riaffermare l’urgenza di nuovi spazi di immaginazione e organizzazione politica (in cui quest’ultima non è mai separata dall’estetica). 

Come funziona l’archivio della disobbedienza

Disobedience abbraccia decenni di insorgenze molecolari, da ACT UP, alla migrazione e la diaspora afro-discendente (Cinéastes pour les sans-papiers), i movimenti globali LGBTQ+ (Carole Roussopoulos, Thunska Pansittivorakul, Barbara Hammer, Sweatmother, Sara Jordenö, Tita Salina & Irwan Ahmett) e la marea transfemminista, l’Est e il Medioriente (Bani Khoshnoudi), il boicottaggio dello Stato sionista coloniale di Israele e la resistenza femminista (Güliz Sağlam, Snow Hnin Ei Hlaing), da Abya Yala alla Palestina, contro la dominazione coloniale, patriarcale e capitalista. 
Lo zootropio è il nuovo paradigma espositivo che convoca queste voci e corpi disobbedienti nella circolarità dello spazio primordiale della riproduzione del movimento – tra il proto-cinema dello Zoetrope e il Kaiserpanorama di cui parla Benjamin – che Max Ernst aveva raffigurato nel 1930 in A Little Girl Dreams of Taking the Veil (Rêve d’une petite fille qui voulut entrer au Carmel) con all’interno una fanciulla si mette le mani sulla testa per paura che gli uccelli le si attacchino ai capelli. Ma uno dei volatili riesce a liberarsi e quella rappresentazione diventa, per Scotini, metafora della rottura dei cliché sulla diaspora geografica e la dissidenza di genere: il rifugiato, il migrante, il transessuale, l’omosessuale, il soggetto coloniale o minoritario spezza le gabbie binarie (neoliberali) e scappa.

I temi trattati dal Disobedience Archive

Disobedience genera una traiettoria di fuga perché non disgiunge i rapporti tra decolonizzazione e capitalismo (come modo di produzione economica intrecciato profondamente con il colonialismo, lo sfruttamento di classe, il sessismo e il razzismo). Non si limita solo a rappresentare ma piuttosto ad indagare il posizionamento epistemico e politico dei soggetti parlanti e delle lotte che portano avanti. La disobbedienza è corale, l’insurrezione è moltitudinaria, le forme di organizzazione sono associative e assembleari. Non si può dunque ragionare per singole opere d’arte. Sostituire il pluralismo con il multiculturalismo potrebbe depotenziare il conflitto per l’autodeterminazione e l’identità delle soggettività dissidenti che partecipano all’impresa di questa grande narrazione epica. 
È qui che affiorano le contraddizioni e le opacità nei presupposti culturali della mostra di Pedrosa (dentro una macchina espositiva che normalizza i rapporti con l’apartheid, censura ogni solidarietà con i palestinesi e allo stesso tempo ospita una mostra decoloniale ben strutturata). All’interno di rigidi confini istituzionali, il discorso dominante riconosce a uno spettro limitato di voci il diritto di narrare e rappresentare. Che cosa accade quando l’artista è autentico? Quando uno straniero parla dell’estraneità e dell’alterità? Quando è la donna non occidentale, o l’indigeno o il queer a parlare delledonne non occidentali, degli indigeni, delle comunità queer? Certamente è giusto che donne, lesbiche, travestit3, froc3, trans e persone non binarie occupino questi spazi ma il pericolo sta nel mito essenzialista dell’autenticità che fa del/della nativo/a un informante attendibile. Non basta inserire artist3 stranier3, trascurat3, outsider, queer e indigen3 per decolonizzare la mostra nel giardino ordinato della Biennale, perché la decolonizzazione, ci ricorda Fanon, è un programma di disordine assoluto.

Gli Stranieri ovunque nel Disobedience Archive: queerness e discorso anticoloniale

L’accumulazione centripeta di autorità – che il palcoscenico internazionale di Foreigners Everywhere promette e mantiene – è espressa nella tassonomia espositiva (una mise en abyme di matrice ancora coloniale che sostituisce ai modernismi occidentali quelli periferici del Sud del mondo) e nelle aspirazioni delle élite neoliberali e del mercato, terreno strategico in cui l’arte ridefinisce la valorizzazione del capitale attraverso sé stessa. Disobedience risponde con un gesto di rottura collettiva che genera una struttura eterotopica dove tutti gli spazi sociali sono al “contempo rappresentati, contestati, rovesciati” in una diffusione centrifuga della dissidenza che oppone la produzione del discorso altro (anticoloniale) alla riproduzione del discorso dell’Altro (ri-coloniale). 
Venezia è stata attaccata per essere una vetrina per il genocidio: l’art-washing, la governance neoliberale, le “strutture” (ideologico-culturali oltre che economiche) che includono ed escludono, l’“estetizzazione della politica che il fascismo persegue”: concetti politici che Scotini porta avanti da anni e che le voci dissidenti di Disobedience hanno rivendicato.
No hay arte por fuera de la política (Non esiste arte al di fuori della politica) è il titolo della performance di María Galindo, del collettivo anarco-femminista Mujeres Creando che partecipa all’archivio con il video Revoluciòn Puta sul lavoro sessuale e le lotte delle sex workers. Nei giorni dell’opening, oltre a un rituale propiziatorio in onore della divinità inca Pachamama, Galindo ha svolto un’azione nello spazio pubblico posizionando sui banner della Biennale centinaia di pañuelos con scritto “No es una guerra es un genocidio. Todos los pueblos del Sur somos Palestina”. Anche l’artista peruviana Daniela Ortiz inserisce nell’angolo in basso dello schermo che trasmette The brightness of greedy Europe, uno spettacolo teatrale di burattini, una bandiera palestinese e le parole: «Boicotta il Padiglione Israeliano, Palestina libera!». Nella terza scena della pièce, il protagonista Muqui – insieme a Houria Bouteldja, Frantz Fanon, Hugo Chavez, Thomas Sankara, Milagro Salam, Linda Porn – ripete l’ultima strofa della canzone contro la guerra Que la tortilla se vuelva dei Quilapayún (1968). Conclude con un messaggio che è al cuore della disobbedienza: “Vogliamo che il mondo si ribalti! Che i poveri mangino il pane e che i ricchi mangino la merda!”.

Elvira Vannini

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Elvira Vannini

Elvira Vannini

Elvira Vannini è storica dell’arte e critica. Dottore di ricerca in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi di Bologna, diplomata alla Scuola di Specializzazione in Storia dell’Arte. Ha tenuto seminari e lezioni in numerose Istituzioni, Università e Accademie, tra…

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