Storia del grande gallerista torinese Alberto Peola che smette di fare il gallerista dopo 35 anni 

Una galleria aperta negli Anni ‘60, un passato da barista e una avventura come gallerista a fianco di artisti come Botto e Bruno e Gianfranco Baruchello. Poi una partnership con una giovane socia, fino a diventare consulente di fiere

La sua galleria storica nata a Torino nell’89, ha affrontato la crisi dei trent’anni ricominciando daccapo ben due volte: prima come Peola Simondi, con l’ingresso di Francesca Simondi come socia e poi solo come Simóndi, come unica titolare della galleria. Stiamo parlando del gallerista Alberto Peola che, da settembre 2023, dopo tre anni di gestione condivisa con Simondi ha lasciato la galleria in mano alla socia per andare in pensione. Ma senza lasciare il mondo dell’arte. Ripercorriamo in questa intervista la sua lunga carriera e scopriamo il suo nuovo percorso come consulente di fiere. 

Chi era Alberto Peola prima di diventare un gallerista? 
Ho cominciato la carriera di gallerista da giovanissimo, ero un ragazzo a fine Anni ‘60. La prima galleria a Torino si chiamava La Tavolozza in corso De Gasperi. Ma prima ho fatto il Liceo Scientifico che ho bruscamente interrotto per la morte prematura di mio padre. I miei genitori gestivano il bar del Tribunale e quindi prima ho dovuto aiutare mia madre e mio fratello in questo bar.

Quando ha iniziato a occuparsi d’arte? 
Ho cominciato a occuparmi di arte sempre lì nella zona del Tribunale, dove c’era il gallerista Vittorio Davico che aveva una corniceria, dove vendeva anche opere. Così ho collaborato un po’ con lui che nel frattempo ha aperto una vera galleria, La Tavolozza, che io ho rilevato nel 1969: lui aveva fondato, in società con Silvano Gherlone, quella che fino a qualche anno fa si chiamava Galleria Davico in Galleria Subalpina. Una volta ceduta La Tavolozza, sono subentrato a uno dei due soci della Davico, dove sono rimasto 10 anni, fino all’87.  

Galleria Alberto Peola, allestimento mostra di Paolo Bini. Photo Carla Colombelli
Galleria Alberto Peola, allestimento mostra di Paolo Bini. Photo Carla Colombelli

Che tipo di galleria era la Davico? 
Quel lavoro non mi soddisfaceva dal punto di vista della ricerca perché l’impostazione della galleria era molto tradizionale e commerciale. Passavano nomi legati a una pittura di tipo realista come Tommaso Ferroni o surrealista come Stanislao Lepri e pittori locali come Giovanni Macciotta, Francesco Tabusso, Fabrizio Clerici, o di respiro internazionale come Ezio Gribaudo: tutti con un ottimo mercato, ma lontani dal mio sentire. Il mondo allora era molto diverso: c’era un’unica fiera, quella di Bologna, e quindi il mercato si svolgeva in galleria. 

Quando ha aperto la sua galleria in Via della Rocca? 
Nell’87 me ne sono andato dalla Davico e nell’89 ho aperto lo spazio in via della Rocca, cambiando completamente impostazione. Cercavo, all’inizio, di seguire alcuni artisti che qui a Torino non avevano mai esposto, tipo Lucio Del Pezzo, Gianfranco Baruchello, Davide Benati e a metà anni ’90 c’è stata una svolta di ricerca sui giovani artisti. Ho fatto la prima mostra di Botto e Bruno nel ’96, di Enrica Borghi, Sara Ciracì, Luisa Lambri: tutti giovanissimi all’epoca. 

A proposito di Botto e Bruno, sono stati gli artisti che hanno dato l’imprinting alla sua galleria…  
La loro prima mostra è stata per me un’esperienza nuova perché ero abituato alle opere pittoriche da appendere alle pareti. Invece, con loro la galleria si è trasformata grazie ai wall painting. Da quel momento in poi ho intrapreso una linea di ricerca con artisti nati tra il ’60 e il ’65 come Pierluigi Pusole, virando anche verso nomi internazionali come Martin Creed nel ’99. Emily Jacir l’avevo vista alla Biennale di Whitney di New York, così l’ho contattata e sono riuscito a portarla in Italia, mentre nel 2004 ho fatto una mostra dell’artista turca Gülsün Karamustafa che quest’anno rappresenta la Turchia alla Biennale di Venezia. 

Com’era la Torino delle sue prime gallerie? 
Era una Torino non facilissima quella della fine degli Anni ’70 perché la GAM era chiusa, il Castello di Rivoli non c’era ancora, e quindi il lavoro espositivo era soprattutto nelle gallerie che, invece, erano vivaci: c’era la Bussola, la Gissi (dove ora c’è la Mazzoleni).  Noi come Davico ci occupavamo di alcuni pittori nazionali. Anche dal punto di vista degli artisti l’ambiente era vivace: c’erano Giacomo Soffiantino, Piero Ruggeri, Giorgio Saroni, Carol Rama, forse non con un mercato internazionale, ma dal background elevato culturalmente. 

Quando comincia il risveglio culturale della città? 
Nel decennio ’75-’85 arriva la prima Giunta Rossa guidata dal sindaco Diego Novelli e lì ci fu un primo risveglio culturale della città con la nascita dei punti verdi e l’ottimo assessorato di Giorgio Balmas. Dal punto di vista galleristico, però, il risveglio è cominciato negli anni ’90: anticipato nell’84 dalla nascita del Castello di Rivoli e dall’arrivo nell’87 di Pier Giovanni Castagnoli alla direzione della GAM è proseguito con l’istituzione delle Fondazioni Merz e Sandretto e di nuove gallerie come Noero. 

Galleria Alberto Peola, allestimento mostra di BottoeBruno. Photo Carla Colombelli
Galleria Alberto Peola, allestimento mostra di BottoeBruno. Photo Carla Colombelli

Poi cosa è successo? 
Poi, la rassegna Luci d’Artista, la crescita di Artissima e la nascita del circuito galleristico TAG trasformano la città, tanto da incoronarla capitale dell’arte contemporanea per molti anni, grazie all’aiuto delle Olimpiadi invernali 2006. 

A proposito di TAG, ne è stato Presidente per un anno. Che tipo di esperienza è stata? 
La TAG è nata nel 2000 con Giorgina Bertolino e Caterina Fossati che all’epoca avevano entrambe una galleria. L’abbiamo fondata insieme e poi io sono sempre stato dentro come Vice Presidente fino all’episodio della presidenza per un anno. La TAG è cresciuta moltissimo negli anni ed è riuscita ad avere un ruolo rilevante in città con le sue inaugurazioni collettive delle gallerie come Ouverture e l’Art Night del sabato sera: siamo riusciti a resistere rispetto a molte città come Milano che hanno smesso. 

E oggi come trova Torino? 
Ora c’è una situazione di “stanca”, di riflessione interrotta solo dal mese di novembre quando la città si risveglia di nuovo grazie alle fiere Artissima, The Others, Flashback. La necessità è quella di creare un secondo appuntamento a maggio. Quest’anno sarà possibile farlo grazie al nuovo festival di fotografia EXPOSED. Torino Foto Festival, in arrivo ai primi di maggio. 

Qual è il suo ruolo oggi in città, dopo l’esperienza da gallerista? 
Adesso collaborerò con Roberto Casiraghi, nel ruolo di Presidente dell’Associazione che gestisce le sue due fiere The Others e The Phair. Ho grandi aspettative per quest’ultima per la quale sarà un anno importante: si svolge in coincidenza con il nuovo festival – col quale collaborerà – e si sposta nella nuova sede delle OGR. 

Lascia Torino Esposizioni? 
L’edificio non è più agibile perché ora ci sono i lavori per ospitare la nuova ala della facoltà di Architettura del Politecnico. Casiraghi ha scelto le OGR anche perché ospiteranno una delle mostre del festival di fotografia che promette un rilancio della città.

Quale sarà in concreto il suo contributo? 
Sarà quello non di un direttore di fiera, per quello c’è Lorenzo Bruni col quale collaborerò, ma di un ex gallerista che darà consigli e indicazioni, portando il punto di vista di chi è stato dall’altra parte. 

Claudia Giraud 

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Claudia Giraud

Claudia Giraud

Nata a Torino, è laureata in storia dell’arte contemporanea presso il Dams di Torino, con una tesi sulla contaminazione culturale nella produzione pittorica degli anni '50 di Piero Ruggeri. Giornalista pubblicista, iscritta all’Albo dal 2006, svolge attività giornalistica per testate…

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