Agostino Bonalumi e Seung Jio, fratelli lontani in mostra a Londra. Intervista al curatore Marco Scotini

Pittore lombardo uno, e artista sudcoreano l’altro. Eppure si somigliano. Una mostra a Londra indaga le similitudini e i contrasti tra queste due figure, distanti solo in apparenza

Lo scorso ottobre 2023, nella sua sede di Londra, la galleria torinese Mazzoleni ha inaugurato una mostra che connette l’oriente e l’occidente mediante un parallelismo tra le sperimentazioni italiane del Dopoguerra e l’emergere dell’astrazione geometrica in Corea del Sud. Organizzata in collaborazione con la galleria coreana Kukje Gallery, la mostra The paradox of proximity mette in dialogo l’opera di Agostino Bonalumi con Lee Seung Jio. Abbiamo intervistato il curatore della mostra, Marco Scotini, per esplorare a fondo il legame, sia a livello artistico che culturale, tra i due Paesi, e riflettere poi su un nuovo modo di comprendere l’arte oltre la dicotomia Oriente/Occidente. 

Intervista a Marco Scotini sulla relazione tra Oriente e occidente

Come descritto nella frase conclusiva del suo testo per il Catalogo della mostra, la prossimità tra i due artisti presentati – l’italiano Agostino Bonalumi ed il coreano Lee Seung Jio – rischia di apparire paradossale. Come è nata l’idea di questa mostra, e come si è sviluppata, a livello curatoriale, la ricerca per la sua realizzazione? 
Come in ogni mostra, anche all’origine di The Paradox of Proximity ci sono tanto fattori esogeni quanto endogeni. Tra i fattori esterni va considerato il decimo anniversario della scomparsa di Bonalumi, che è già una ragione sufficiente a giustificare la scelta del maestro lombardo. Dal punto di vista del contenuto, si è trattato invece di mettere in scena un dialogo – peraltro mai avvenuto – tra Bonalumi e Lee Seung Jio (che è uno dei pionieri dell’astrattismo coreano) in un arco di tempo cruciale come il passaggio tra gli anni Sessanta e Settanta. Per comporre questo dittico la mostra si è avvalsa della collaborazione delle gallerie Mazzoleni di Londra e Kukje Gallery di Seoul, oltre che degli archivi dei rispettivi artisti. Si è cercato di sottolineare le analogie tra i due artisti, più o meno coetanei, e di evidenziare il loro contributo allo sviluppo del Modernismo del Dopoguerra, seppur da polarità geopolitiche opposte.

Agostino Bonalumi, Bianco, 1973. Courtesy of Mazzoleni
Agostino Bonalumi, Bianco, 1973. Courtesy of Mazzoleni

La relazione dicotomica tra Oriente e Occidente, a livello concettuale, nasce in politico, sociale – giustificare la superiorità dell’Europa e dell’Occidente. L’idea di ripensare questo rapporto presuppone un cambiamento paradigmatico non semplice; per cui, molto spesso, la rinnovata fascinazione verso l’Asia, e verso la Corea, che il mondo contemporaneo continua ad avere, cade nelle stesse dinamiche. Quali sono, a livello curatoriale ed espositivo, le possibilità e strategie da adottare, per poter cambiare questo sguardo? E come sono state adottate nel pensare la mostra?
Credo che la mostra renda evidente questa volontà di superamento della dicotomia tra Oriente e Occidente. La stessa comparazione tra due importanti artisti collocati tra l’Atlantico e il Pacifico cerca di rendere problematica questa distanza presupposta come insopprimibile. Con questa esposizione, per quanto di dimensioni ridotte, vorremmo continuare la ricerca cominciata da Okwui Enwezor, nel 2016, con il grande progetto Postwar, in cui si cerca di ampliare i confini della storia dell’arte moderna oltre l’Occidente dal 1945 in poi. Nel contesto della globalizzazione attuale, è necessaria una nuova ricerca tesa a individuare modernità alternative, parallele, non allineate. Come si vede in questa mostra, nuovi linguaggi, nuove forme di produzione artistica, nascono dall’incrocio e dall’ibridazione di storie culturali diverse tra loro che, pur tendendo ad obiettivi simili, hanno presupposti discordanti, eterogenei.

Iniziando dal concetto di prossimità, un file rouge che connette i due artisti sono le condizioni storiche e socio-culturali legate all’idea di progresso, sebbene in due contesti molto differenti. Allo stesso tempo, sia Bonalumi sia Lee, si differenziano dai loro contemporanei per una ricerca meticolosa e quasi ossessiva, basata sull’idea di ripetizione, di una sperimentazione spaziale che supera le visioni moderne di bidimensionalità (Lee) e tridimensionalità (Bonalumi) della tela. Ci spieghi come i due artisti possono essere visti al contempo “figli della loro epoca” e innovatori. 
Dobbiamo tornare al concetto di Postwar nelle sue varianti e all’idea di ricostruzione che gli è connessa. Nel caso di Bonalumi, abbiamo a che fare con un’Europa che esce dal Secondo Conflitto mondiale e comincia a rifondarsi con grandi speranze emancipative a partire dalla tecnologia e dai nuovi materiali industriali. Nel caso di Lee Seung Jio, invece, il contesto è quello della fuoriuscita dalla Guerra di Corea (1950-53) e del successivo movimento di contestazione che prende il nome di Rivoluzione del 19 aprile (1960), con cui si richiede e si ottiene il capovolgimento del governo conservatore del primo presidente Syngmann Rhee. Si tratta di eventi politico-sociali che rendono possibile tutta una serie di aspirazioni e speranze che si riflettono anche sulla più giovane scena artistica, oltre il trauma del dopoguerra. Tanto Bonalumi che Lee Seung Jio sono attivi esponenti di questi eventi ma la differenza tra la dimensione di partecipazione sociale e i cosiddetti “tubi” dell’uno, così come le “estroflessioni” dell’altro, definiscono il loro carattere innovativo. Cercare di spiegarne le ragioni è il nostro compito.

Trovo molto interessante la sua riflessione sul concetto di un universo atomico che caratterizza i due artisti, legato al contesto degli anni ‘60 e ‘70 della space race, ma anche alla consapevolezza relativa a una nuova idea globale di modernità, progresso, sviluppo tecnologico ed urbano, e indagine spaziale. Come si declina ciò nell’opera dei due artisti? 
La formazione di Bonalumi avviene a contatto del movimento Nucleare milanese con Enrico Baj, Sergio Dangelo, Joe Colombo e Piero Manzoni all’inizio. Senza trascurare lo Spazialismo di Fontana. Anche stessa parola Azimut, che contrassegna la rivista e lo spazio espositivo di Manzoni e Castellani (sodali di Bonalumi), è tratta dall’astronomia. Da parte sua, invece, Lee Seung Jio sceglie, a partire dal 1967, il termine Nucleus per identificare tutte le sue opere, affiancato da un numero progressivo che ne marca, ogni volta, le infinite varianti. Nel 1962, mentre è ancora alla scuola di pittura, onda il Gruppo Origine, il quale fa riferimento a uno spazio che può essere osservato da una prospettiva cosmica.

Malgrado la mostra si focalizzi sull’accomunare i due artisti, quali sono, a suo avviso, le peculiarità uniche di Bonalumi e Lee, che ne enfatizzano l’impossibilità di una conversazione completa, rendendola quindi paradossale? 
Innanzitutto, si tratta di due personalità fortemente individuali e originali, difficilmente assimilabili ad altri e tra di loro. Il fatto che uno sia stato identificato con i suoi tubi pittorici mentre l’altro con le sue estroflessioni, dà un’idea di quanto lo stile diventasse una lingua propria, che si identificava a tal punto con la personalità dell’artista, da dover essere tradotta, ogni volta, in un linguaggio comune. In sintesi, l’approccio di Lee Seung Jio è di natura illusionistico-visiva, mentre quello di Bonalumi è tattico, fenomenologico e sensuale allo stesso tempo. 

Per concludere, cosa può e vuole raccontare una mostra come “The paradox of proximity”, allo spettatore contemporaneo? 
Al di là dei contenuti artistici, la mostra vuole proporre una sorta di modello di indagine al fine di costruire una nuova mappa della modernità. I rapporti tra l’arte euro-americana e quella coreana finora sono stati rappresentati principalmente da una figura come Nam June Paik, che tutti conosciamo per i suoi rapporti con il movimento tedesco Fluxus, ma che ha lasciato la Corea a quasi venti anni per fuggire dalla Guerra. Il problema attuale è quello di ricercare una modernità dislocata e più complessa, declinata localmente, e polifocale. Da questo punto di vista, la mostra, nonostante le sue dimensioni ridotte, può essere considerata l’indicatore di un pensiero contemporaneo, in cui i flussi digitali hanno capovolto il nostro concetto di relazione ben al di là dello spazio condiviso.

Valentina Buzzi

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Valentina Buzzi

Valentina Buzzi

Valentina Buzzi è ricercatrice, docente, art advisor e curatrice con sede a Seoul, in Corea del Sud. Collabora con diverse riviste d'arte, gallerie e istituzioni culturali in Europa, Corea del Sud e Stati Uniti, condividendo analisi ed expertise della scena…

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