Artivismo per salvaguardare il Delta del Po. L’intervista all’artista Adelita Husni-Bey 

Valorizzare il patrimonio naturalistico dell’area protetta di Campotto-Parco del Delta del Po anche attraverso le opere dell’artista Adelita Husni-Bey. Un progetto curato dall’associazione Basso Profilo, per una maggiore consapevolezza ambientale e culturale

Quello della salvaguardia delle acque e del patrimonio naturalistico è un tema centrale che rientra in una visione ambientale, comunitaria e nazionale di forte attualità. In queste settimane si avvia alla conclusione un percorso partecipato, quello di CAMPOTTO: accordi di comunità verso un nuovo piano di stazione, progetto con l’obiettivo di definire nuovi accordi di comunità per la stazione di Campotto del parco del Delta del Po, e che vedrà vagliare alcune nuove proposte di gestione in un epilogo pubblico, il prossimo 4 dicembre ad Argenta (presso l’ex chiesa di San Lorenzo – Biblioteca comunale “F. L. Bertoldi”, ore 18:00). 
Parte di questo processo si è avviato anche grazie al Teatro Legislativo, progetto artistico e partecipativo realizzato dall’artista Adelita Husni-Bey (Milano, 1985) che riflette in modo sociale e culturale le condizioni della riserva naturale d’acqua umida nei pressi della stazione di Campotto.  
L’intera operazione di Campotto nasce da un’idea dell’associazione di promozione sociale Basso Profilo, con la coordinazione di Leonardo Delmonte e in collaborazione con l’Ente Parco del Delta del Po e l’amministrazione di Argenta (FE), in merito alla riorganizzazione del piano gestionale dell’oasi di Campotto nel Parco del Delta del Po (emiliano-romagnolo).  
In occasione della performance e forum di restituzione di Teatro Legislativo (lo scorso 21 ottobre) abbiamo intervistato Adelita Husni-Bey

Laboratorio con Adelita Husni-Bey. Teatro Legislativo ad Argenta per Basso Profilo. Photo Matteo Cattabriga
Laboratorio con Adelita Husni-Bey. Teatro Legislativo ad Argenta per Basso Profilo. Photo Matteo Cattabriga

Chi è Adelita Husni-Bey? 

In una intervista hai dichiarato che nell’arte il tuo interesse è andare oltre l’attenzione del pubblico degli addetti ai lavori. Per te è importante raggiungere un pubblico più “espanso”. Come ci riesci? 
Sono convinta che ci siano due filoni paralleli che devono funzionare perché non si parli solo agli ‘addetti ai lavori’. Da una parte è necessaria la volontà e capacità da parte dell’istituzione museale (o comunque culturale) di fare un lavoro di divulgazione capillare del progetto, entrando nelle scuole, nelle università e nei luoghi di lavoro. Dall’altra parte ci vuole un’idea che possa coinvolgere, avvicinare e non alienare. Questo vuol dire non parlare solo alla propria classe sociale o articolare il proprio lavoro così che lo possa capire solo un laureato bianco. Nel mio lavoro questo significa coinvolgere persone che magari in un museo non hanno mai messo piede o che non hanno un rapporto stretto con l’arte contemporanea – come un gruppo di avvocati o fisioterapisti – che magari invitano a loro volta i loro amici e famigliari ad avvicinarsi a questo tipo di analisi poetica. Penso a quando sono andata a fare volantinaggio per un laboratorio in un liceo a San Francisco nel 2016, o quando ho coinvolto dei dottori parlando direttamente con il dipartimento di riabilitazione sportiva del progetto che stavo portando avanti alla Kadist Foundation. All’opening sono venuti sia i dottori che i liceali.  

Il tuo ambito di ricerca spazia dalla pedagogia al teatro, dall’anarco-collettivismo alla giurisprudenza, dalle differenze di genere e allo sviluppo urbano. Quali sono gli spunti teorici e pratici che accompagnano la fase preparatoria nei progetti? 
Sono vari, come accenni qui, e dipendono in gran parte dalle tematiche del progetto che sto affrontando. In questo momento sto leggendo Amitav Ghosh, La Maledizione della Noce Moscata, per prepararmi a un lavoro che tratta la questione del darwinismo sociale. Nei primi capitoli Ghosh descrive la colonizzazione delle isole Banda e lo sterminio della popolazione locale. Una frase in particolare mi è rimasta in mente, specialmente perché mi sembra un chiaro eco di quello che sta succedendo in Palestina: “mi chiedo come ci si senta nel ritrovarsi di fronte a qualcuno che ti dice chiaro e tondo che ha il potere di mettere fine al tuo mondo, e cha ha tutta l’intenzione di farlo”.  

Durante i tuoi lavori come costruisci il rapporto con i partecipanti e che approccio applichi nei loro confronti? 
L’educazione popolare parte dall’idea che il processo di apprendimento è sempre condiviso e che debba necessariamente partire dalle esperienze di chi partecipa. La ricerca non dovrebbe mai essere completa al momento dell’incontro, ma svilupparsi collaborativamente. Alla fine del percorso ciò che si è imparato va messo ‘in azione’, cercando di limitare approcci puramente teorici.  
Spesso sono ospite in un contesto che non conosco bene, cerco quindi di approcciare la situazione rendendomi vulnerabile al cambiamento di posizione, predisponendomi all’ascolto – una posizione molto diversa dall’insegnamento. A livello materiale, un aspetto a mio avviso da non sottovalutare, offro un piccolo stipendio a chi dedica del tempo all’esplorare, con i propri strumenti, la produzione di un lavoro con me. Inoltre chi partecipa diventa proprietario in percentuale del lavoro, questo è contrattualmente stipulato all’inizio della collaborazione. I partecipanti sono compagni di viaggio, persone dalle quali imparare, persone che si prestano a coinvolgersi in un framework che costruisco perché offra – ove possibile e accolto – piccoli strumenti collettivi per un’analisi critica del presente.    

Quali metodologie utilizzi maggiormente e in che maniera riesci a elaborare i risultati ottenuti? 
In questo momento sono molto interessata al teatro Immagine (sviluppato da Augusto Boal negli anni Settanta all’interno delle metodologie del Teatro degli Oppressi) che declino come ‘pedagogia incarnata’, ovvero forme di apprendimento e analisi che prediligono l’interpretazione con il corpo. Durante le conversazioni che seguono gli esercizi spesso si fanno riflessioni che sarebbe stato impossibile fare solo ‘a parole’. Ad esempio che il potere è erotico. Sentire con il proprio corpo, somatizzare un concetto attraverso esercizi di teatro è una pratica molto potente. Il video e la fotografia sono i mezzi che prediligo per rappresentare ed elaborare le questioni che emergono durante i laboratori in questo momento, ma ho utilizzato anche l’audio (Cronaca del Tempo Ripetuto, 2021) lavorando con un’orchestra da camera. Attingendo al subconscio e in forma quasi-terapeutica, disegno e dipingo. 

Il progetto Teatro Legislativo di Adelita Husni-Bey 

PERFORMANCE e FORUM pubblico di Teatro Legislativo è il titolo del progetto realizzato per CAMPOTTO curato dall’associazione Basso Profilo. Come nasce e quali sono gli sviluppi del gruppo di lavoro organizzato tra la fase laboratoriale e la restituzione pubblica?  
Sono stata invitata a riscrivere il piano gestionale della Stazione di Campotto, ovvero una parte del parco che si trova ai confini della città di Argenta. Ho deciso di proporre una pratica per me sperimentale, ovvero il Teatro Legislativo, sempre sviluppato da Boal quando fu, per un breve periodo, consigliere comunale di San Paolo dal ‘93 al ‘97. Partendo da problematiche e da contrasti vissuti dalla popolazione nei confronti dell’amministrazione locale, e in questo caso con un focus sulle regole di accesso e conservazione del parco, il Teatro Legislativo ha come scopo quello di scrivere delle vere e proprie bozze di legge collettivamente, attraverso la rappresentazione teatrale.  

In cosa consiste? 
Nella prima fase, con un gruppo di attric* e persone interessate abbiamo ricercato e dibattuto su quali problematiche legate al parco, al territorio e alla sua gestione, potessimo mettere in scena. Abbiamo poi sviluppato 4 punti partendo da situazioni reali che mettevano in luce un particolare conflitto. Uno era legato al controllo di alcune specie che grazie agli sforzi conservativi si erano moltiplicate fino a creare disturbi agli allevatori, un altro riguardava le sanzioni elargite dai molti e diversi enti incaricati della gestione di diverse aree del parco e le sue zone di confine, uno trattava le difficoltà dei gestori di piccoli ostelli nel proporre eventi all’interno del parco e uno riguardava l’allagamento preventivo di alcune aree abitate durante l’alluvione di maggio. 
Gli argentani presenti si sono prestati a questo ‘gioco’, condividendo con noi il palco. Questi momenti di condivisione hanno preceduto la parte dell’evento nel quale sono state elaborate le proposte di cambiamento del piano gestionale in piccoli gruppi. Due tecnici con esperienza professionale in questo campo facevano parte di ciò che Boal chiama la ‘cellula metabolica’ ovvero chi deve vagliare le proposte e dividerle tra proposte che già esistono nel piano gestionale, proposte che esulano dal piano gestionale e proposte che potrebbero essere integrate.  

Quali erano gli obiettivi da raggiungere e fino a che punto vi siete spinti nei laboratori?  
Questo teatro è un teatro dialettico, non divide il mondo in due come potrebbe forse suggerire il suo nome (Teatro dell’Oppresso), ma cerca invece di analizzare le contraddizioni insite in qualsiasi legge, piano gestionale, rapporto di potere – serve a smuovere le coscienze, informare e organizzare. L’obbiettivo primario è stato quello di fornire proposte concrete per l’ente parco. Una delle proposte che più mi è rimasta in mente è stata quella di creare un consorzio cittadino che abbia come scopo quello di discutere l’accesso al parco e rilassare alcune delle regole riconosciute troppo stringenti dall’Ente Parco stesso. A breve partirà l’ultima fase del progetto integrativo di Basso Profilo che intende definire dettagliatamente le proposte emerse durante la performance per presentarle all’Ente Parco che ha il vincolo di applicarle nel piano gestionale.  

Laboratorio con Adelita Husni-Bey. Teatro Legislativo ad Argenta per Basso Profilo
Laboratorio con Adelita Husni-Bey. Teatro Legislativo ad Argenta per Basso Profilo. Photo Matteo Cattabriga

Quali sono state le tracce più significative e importanti che hai raccolto in questa occasione? 
Ci siamo soffermat* sulla perdita del rapporto tra argentani e territorio circostante, un territorio che grazie alla conservazione ha permesso alla flora e fauna di emergere con grande forza ma che ha anche creato zone di accesso ridotto o negato. La progressiva urbanizzazione ha reso secco un ex-territorio paludoso e l’agricoltura intensiva e la cementificazione lo hanno reso poco permeabile dalle acque. Una delle nostre scene voleva far riflettere su come alcune pratiche di cura del territorio (ad esempio rimuovere alcune piante in determinati periodi dell’anno dagli argini dei canali) fossero state proibite attraverso le sanzioni dai vari enti che gestiscono la zona. Questo cambiamento è inevitabilmente legato a politiche che puntano a una particolare visione della ‘conservazione’, una visione che separa le specie (quella umana da quelle animale) e vede la natura come un qualcosa con il quale non interagire, ma da osservare (infatti una delle attività più sostenute dall’ente parco è il birdwatching). Durante la performance è emersa la tematica della ‘turistificazione’ di territori economicamente depressi come l’argentano, ma come venne espresso con forza durante la performance da uno dei partecipanti, esiste il desiderio di riappropriarsi del parco, perché in fondo il parco è pubblico e di tutti. Senza tralasciare il grande lavoro di protezione svolto fino ad oggi dall’Ente Parco, forse bisogna entrare in una nuova fase, dopo quella strettamente ‘conservativa’ che bilanci il desiderio di proteggere con il desiderio di vivere e condividere gli spazi inter-specie, senza alienarci da essi ma imparando (e re-imparando) pratiche di interazione ambientale collettive e comuni. 

Il complicato e drammatico conflitto israelo-palestinese pone al suo interno-esterno numerose problematiche legate anche all’informazione. Nel 2018 alle OGR di Torino hai presentato il talk “Complici o alleati”. Ora, nonostante le differenze tra i due momenti storici, si potrebbe pensare a una riflessione sul tema per provare a costruire un’argomentazione comunicativa di identità unitaria e bilanciata da ambo le due parti in guerra?  
Non concordo sull’idea di avere una posizione bilanciata. Come si può avere una posizione ‘bilanciata’ davanti al massacro di 10,000 persone? Davanti al genocidio e all’intento di fare evacuare milioni di rifugiati dalle proprie case, o campi, per farle vivere in una tendopoli nel deserto del Sinai? non penso ci siano posizioni ‘bilanciate’ davanti a un’occupazione che si protrae da 75 anni. C’è solo un chiaro sbilanciamento, ed è quello del potere della macchina da guerra Israeliana supportata dal governo intervenzionista per eccellenza, quello americano. Il senso di ciò che ho espresso nell’intervento che citi non riguarda ‘un’identità unitaria e bilanciata’, ma forse il suo opposto, un riconoscimento dello sbilanciamento che è insito nella posizione, ad esempio, tra colone e colonizzatore. Il testo che hai menzionato (il cui titolo è Complici, non alleati) di Indigenous Action è un invito, una provocazione, a rivedere il concetto di alleanza (della solidarietà ‘solo a parole’ per intenderci, o intesa come atto salvifico) e di trasformarla in complicità. La complicità ha accezioni diverse rispetto all’alleanza, ci spinge a considerare la possibilità di commettere un ‘crimine’ e di riconoscere che la nostra lotta sia legata a doppio filo con quella di altre lotte. Come suggerisce l’attivista aborigena Lilla Watson: “se venite qui per aiutarmi, state perdendo tempo. Se venite perché la vostra liberazione è legata alla mia, allora lavoriamo insieme”. 

Giuseppe Amedeo Arnesano 

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Giuseppe Arnesano

Giuseppe Arnesano

Storico dell'arte e curatore indipendente. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali all'Università del Salento e in Storia dell'Arte Moderna presso l'Università La Sapienza di Roma. Ha conseguito un master universitario di I livello alla LUISS Master of Art di Roma.…

Scopri di più