Nata in India e cresciuta in Africa, Rithika Pandey (Varanasi, 1988) è l’eroina di una poetica artistica profondamente legata alla spiritualità delle origini, raccontata per tramite di animali fantastici e figure semi-divine che richiamano le miniature indiane e certi ambiti del Modernismo novecentesco. Al fondo, la celebrazione della grandezza dell’universo, mutuata dalle radici indiane.

LA MOSTRA DI RITHIKA PANDEY A ROMA
Ispirandosi alle narrazioni del Rig Veda, Pandey è autrice di cicli pittorici in cui si percepisce l’affanno dell’umanità e della natura tutta per raggiungere quel sogno di perfezione terrestre che insegue da millenni. Quelle figure antropomorfe, sottilmente inquietanti, sono sospese fra l’armonia del passato, fatta di natura e spiritualità, e il caos di un asettico presente soffocato dalla tecnologia e che ha uccisa la spiritualità.
I colori vivaci e quegli interni deformati che sfiorano il Surrealismo, ricordano le atmosfere di Francis Bacon, anello di congiunzione dell’artista sia con la pittura sia con l’angoscia del Novecento. Ma il messaggio è comunque fondamentalmente positivo, come si evince anche dal titolo e dalle pitture in cui risplende l’energia esplosiva di Shiva e Ganesh; è forte l’idea della fertilità, sia della natura sia dello spirito, resa ancor più solenne dal concetto appena accennato della circolarità, quell’eterno alternarsi della vita e della morte, secondo l’antichissima dottrina del Saṃsāra. Dal recupero delle radici può scaturire la creazione di una nuova umanità.
‒ Niccolò Lucarelli
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