Da anni porti avanti il progetto Selvatico dedicato all’analisi della pittura contemporanea. Come nasce Inventario Varoli?
È nato in maniera imprevista, ma non credo del tutto casuale. Di certo è cresciuto, nei mesi, e ha preso spazio. Come una pianta. Adattandosi a quello che succedeva. Allargandosi. Avevo bisogno di qualcosa che si muovesse diversamente rispetto a Selvatico, al suo cuore numeroso, un’esperienza che consideravo e considero chiusa; così, all’inizio del 2020 ho presentato un progetto per ospitare a rotazione alcuni studi di pittori dentro al Museo Civico di Cotignola; non proprio una residenza, ma non so definire bene. Due o tre autori insieme. Non di più. Più intimo e raccolto. Negli intenti sarebbe dovuto durare un anno circa, o poco più, dandoci il tempo di pensare e vedere, di capire meglio. Guardando quel che succedeva. Incontrandoci. Parlando molto, forse. Di questo progetto infine non se n’è fatto nulla. Ma non è andato perso del tutto, è diventato altro.
Parliamo allora di questo altro.
Dovevamo comunque spostare le raccolte conservate nella casa-studio di Luigi Varoli (una delle nostre sedi museali) per via di lavori di ristrutturazione e ampliamento. Questo corpo di oggetti, sculture e reperti è diventato una mostra-deposito, detta così sembra quasi un ossimoro. Piuttosto che starsene sonnambula, nascosta e in attesa di tornare al suo posto, questa collezione è stata messa al centro del museo con un allestimento temporaneo fatto principalmente da una lunga fila di tavoli bianchi che permetteva un rapporto molto ravvicinato con le cose. Una mostra orizzontale. Un teatro. Immobile. Uno schieramento. In attesa. Questo allestimento ha coinciso poi con il primo lockdown. Appena è stato possibile riaprire lo abbiamo fatto presentando questo lavoro, familiare e sconosciuto al tempo stesso. Poi, nel mese di maggio, ho fatto alcune visite guidate disegnate per i bambini. Non parlavo ma disegnavo con loro, dal vero, a piccolissimi gruppi, così come era concesso. Ci siamo divertiti. Era avventuroso districarsi dentro a questa foresta di fantasmi e memorie, di oggetti muti. Orientarsi. Scegliere. Farsi guidare. Era intenso. Ci ritrovavamo. Finalmente. Fuori c’era paura. Quello era uno spazio protetto. Ho pensato che la stessa cosa avrebbero potuta farla anche i grandi. E così è stato. Poi, mi rendo conto ora, si congiungono pezzi sparsi, riconosci stratificazioni, riaffiorano le cose che ti hanno nutrito, colpito e catturato nel tempo. Tornano, sembrano connettersi e trovare un ordine.

Raccontaci di qualcuno di questi nutrimenti.
Sicuramente c’è un debito nei confronti del lavoro instancabile, testardo e prezioso di Lorenza Boisi (Landina su tutto ma non solo) con cui ho avuto il piacere e privilegio di collaborare più volte negli ultimi anni, la sua posizione viva e battagliera, ostinata e contraria di artista (le ho fatto il filo molto per Inventario Varoli, ci siamo sentiti, non abbiamo purtroppo trovato l’incastro giusto). Il duello ingaggiato da Paola Angelini con il gigante Tiziano dentro le Gallerie dell’Accademia e non solo, un po’ di anni fa, una cosa felice e infuocata. Un disegno misterioso di Valentina D’Accardi, quasi una premonizione, fatto a partire da una anonima testa in gesso tra le molte che stavamo allestendo al museo. Interrogava.
Perché concentrarsi sul disegno?
Perché è qualcosa davvero senza fine. Un fiume, un flusso inarrestabile. Un archivio infinito di possibilità. Eppure ancora vergine per certi versi. Qualcosa che ha a che fare con la verità, per quanto imprendibile e scivolosa sia questa parola. Ancora magico. Necessario. Il più semplice e povero dei mezzi. Bagaglio leggero. Tutti lo usano, o quasi. È ovunque. Non si finge con il disegno. Il disegno aiuta a vedere meglio e, al tempo stesso, ci trasforma. Sempre. Il foglio di carta, membrana sensibile, mediazione tra noi e il mondo, riceve e trasmette. Mi è sembrato, davvero non so se definirlo linguaggio, il più adatto per guardare. Fuori e dentro di sé. Per orientarsi. Mantra, esercizio o disciplina per uscire da una crisi. Un’avventura ancora. La chiave giusta per entrare al museo e mettersi in ascolto. Qualcosa di modesto e accessibile a tutti. Un mondo ancora inesplorato. Primitivo.
Dalla mostra emergono i temi dell’inventario, del deposito, dell’archivio e dei racconti e narrazioni a essi correlati, ma tocchi anche il tema di nuove forme di musealizzazione e di attivazione degli spazi espositivi e degli studi d’artista. Come si rapportano le opere con le raccolte custodite nella casa-studio di Luigi Varoli a Cotignola?
Come ti dicevo, tutte le raccolte della casa-studio sono state disposte su di un grande piano, quasi un tavolo anatomico, una lunga fila, un deposito o all’apparenza una confusa distesa da mercato delle pulci. In realtà ordine e rimandi interni sono lo scheletro indispensabile di questa costruzione dove tutto si tiene, triangola e rimpalla. Questo ha permesso di rivedere molte cose, se non come la prima volta, di certo con sguardi nuovi. Per le relazioni che si innescavano tra gli oggetti. Nuove costellazioni. Di senso anche. Per il pubblico, e anche per gli artisti al lavoro, questo allestimento ha rappresentato una possibilità di contatto molto ravvicinato con le opere, un privilegio quasi tattile che solitamente è concesso solo a operatori museali, conservatori e restauratori. Collezioni e raccolte che sono state da stimolo e innesco per gli artisti. Non si tratta solo di oggetti, ma di un patrimonio, anche immateriale, un’energia che ha a che fare con i luoghi, e con chi li vive e li ha vissuti. Con la provincia in questo caso. Con i margini. Anche con un’idea un po’ stupida di ritardo.

Come hanno lavorato gli artisti con questo “mercato delle pulci”?
C’è chi ha disegnato o dipinto dal vero davanti alla cosa che li chiamava, chi ha scattato foto e poi è andato altrove, nel giardino o nella casa, chi ha guardato e poi si è affidato alla memoria. Chi è arrivato sapendo già esattamente cosa voleva fare e chi si è messo in ascolto, camminando, aggirandosi e guardandosi intorno. Due giorni in cui il tempo si dilatava. Parecchio. Le produzioni, incredibilmente, lo testimoniano. Hanno lavorato piccoli gruppi di artisti, cinque, sette, non di più. Ogni volta, alla fine di queste sessioni che si sono susseguite da luglio a ottobre 2020, e che mi viene da chiamare episodi, hanno allestito parte delle loro produzioni al secondo piano di Palazzo Sforza (l’archivio Varoli è al piano terra) disegnando una mostra aperta che avrebbe continuato a modificarsi e crescere nel tempo, cambiando forma e trovando sempre nuovi equilibri, e che rappresentava una sorta di doppio, un vero e proprio cortocircuito tra raccolte e sguardi contemporanei. Un gioco di specchi e un sistema di risonanze. Quale l’ombra? Il museo o il dipinto contemporaneo?
Tra artisti al museo, il museo negli studi degli artisti e la mostra, in che modo hai sviluppato il progetto?
Di certo il progetto si è aggiustato in corsa insieme e con gli artisti. Definendosi nel tempo. Precisandosi. Poi ha risposto inevitabilmente anche a tutto quello che di doloroso e spesso imprevedibile ci succedeva intorno. Così, se fino a ottobre 2020 il museo si è trasformato in uno studio temporaneo, da novembre ha innescato un movimento inverso, entrando lui, questa volta, negli studi degli artisti, nelle loro case. Come stanandoli o svegliandoli da un torpore. Ma con la certezza, o volontà meglio, di ritrovarsi e di riportare tutto a Cotignola, fisicamente, appena possibile. È ciò che è avvenuto con l’inaugurazione delle mostre a giugno 2021, che sono due, anzi tre. Una fatta con le cose di Varoli, una con le opere prodotte dagli artisti sul luogo, la terza invece, allestita da me, e non dagli artisti, negli spazi dell’ex ospedale Testi dove sono confluite le opere, disegni e dipinti, fatti a distanza.

La copia, l’ombra. Mi piacerebbe approfondire…
Il progetto prevedeva che gli autori invitati si misurassero con il problema, se così possiamo dire, della copia, della traduzione e del tradimento inevitabile (e gradito). L’idea di copiare qualcosa è meccanismo che inevitabilmente porta con sé molte varianti. Una lotta forse. Un limite imposto. Stare con i piedi per terra. Poco pensiero, affidarsi a quel che si vede. Senza troppi trucchi. Da qui il disegno credo, il mezzo più adatto all’ascolto. Fuori e dentro insieme. Ma è poi altrettanto inevitabile che questo ingaggio porti anche a scarti, invenzioni e immaginazioni. Ecco la pittura. La pelle e la stratificazione. Seppellire e scavare. Riflettere su questa distanza e frattura. L’ombra allora qui si sdoppia: c’è quella immediata e diretta del riportare perdendo inevitabilmente e facendo diventare altro con la speranza che questo abbia una sua legittimità e autonomia, pur partendo da un amore o omaggio (quello che avviene con le canzoni e le cover per intenderci), e poi quella più complessa e articolata rappresentata dal corpo intero, da tutte le opere prodotte nei mesi che appunto andavano a delineare e formare un doppio concreto, un’eco o riflesso tangibile. Misurabile. Un altro organismo, con un suo respiro. Autonomo e debitore dell’altro. Con il secondo lockdown questo cortocircuito è diventato ancora più evidente perché gli artisti invitati hanno guardato a una galleria e archivio fotografico prodotto appositamente. Misurandosi quindi con una sorta di doppio sguardo a potenza, ossia dover o poter guardare un’opera o un oggetto già guardato a sua volta da altri. E restituirlo ancora. Avrei potuto scrivere mappe e labirinti. O autoritratto e paesaggio.
Cosa rappresenta lo studio per un artista?
Per la prima volta mi ritrovo senza uno studio vero e proprio. Ci sto pensando.

Perché è importante soffermarsi sulla figura di Luigi Varoli? Sono emerse nuove letture e interpretazioni grazie allo sguardo e al lavoro degli artisti invitati?
È un artista diciamo minore, ma non isolato come sembrerebbe, con una potenza di fuoco davvero inesauribile, che si ramifica in moltissime direzioni. Molte le piste che partono da lui e da questo museo. Stimoli non mancano. Sembra una banalità ma forse il lavoro degli artisti ha permesso, più che di offrire risposte, di rilanciare domande. Inventario Varoli è per me una restituzione. Un ritorno a casa. Qualcosa che è ancora urgente. Luigi Varoli vive. Nelle cose che facciamo con i bambini dentro ai laboratori della scuola Arti e Mestieri, nella capacità di richiamare qui persone a studiare e confrontarsi, nel pensare ancora al museo non come a qualcosa di predatorio e inspiegabile ma come luogo identitario, che continua a modificarsi nel tempo e trasformarsi senza perdere la sua vocazione produttiva, capacità di generare idee e possibilità. Luogo che accoglie. Aperto. Soglia.
Come hai individuato gli artisti coinvolti nella mostra? E come hanno risposto al tuo invito?
Inizialmente con una doppia direzione: un nucleo di artisti che avevano già partecipato a Selvatico su cui si innestavano nomi nuovi. Cercando, per quanto possa sembrare assurdo e imprendibile, di disegnare gruppi che potessero funzionare anche umanamente, perché si trattava comunque anche di condividere e creare una piccola comunità per quanto effimera e precaria. Un tempo concentrato e intenso. Con le restrizioni varie poi e con le incertezze continue con cui si doveva fare i conti, non era secondaria nemmeno la valutazione degli spostamenti e delle distanze. In una condizione normale probabilmente ci saremmo mossi diversamente. Ma di normale non c’era nulla. Poi quando il progetto si è dovuto trasformare e adattare alla distanza e al remoto, ho scelto artisti che avessero già lavorato a Cotignola e a Selvatico, per dare loro la possibilità di accedere anche alle loro memorie ed esperienze, a ciò che avevano visto e sentito, e poter così dare un senso alle fotografie e anche aggirarle se volevano. O affidarsi a immagini diciamo più anonime, magari scattate da loro stessi. A volte fatte anche da noi su loro richiesta specifica.

La figurazione è il linguaggio che emerge principalmente. È una scelta o una conseguenza?
Tutte e due le cose insieme.
Come è articolato Atlante infinito, il programma di incontri che accompagna la chiusura della mostra? Quali i suoi obiettivi?
È una festa. Per salutare degnamente un progetto che alla fine, me ne rendo conto ora, è stato davvero l’ultimo episodio di Selvatico, una specie di restituzione come dicevo sopra, un ritorno a Luigi Varoli da cui tutto era partito. E che ci ha accompagnato e orientato lungo un anno drammatico e complicato. Qualcosa che ha a che fare con l’identità di un luogo. Con una scelta e presa di posizione che è sempre politica. Una certa idea del mondo. Su cosa comporta essere o definirsi artista oggi. Una ricerca di senso insomma. Su quale senso abbia anche operare in provincia. Quali le difficoltà e quali i punti a favore. Con la convinzione che le gare, qui, non mi interessano. Il programma è ricco e ancora in fase di evoluzione. Ci saranno altri artisti al lavoro. Una specie di estensione della mostra e del progetto nei suoi ultimissimi giorni e che da un certo punto di vista avrebbe potuto continuare quasi all’infinito. Ci saranno curatori e artisti impegnati in tavole rotonde a partire da alcune esperienze accadute altrove che riteniamo significative e che desideriamo mettere a confronto e in dialogo, allargando l’orizzonte. Pittura e disegno ancora, atlanti infiniti, appunto. E ancora, e infine, Cotignola come centro di due forze, una centripeta che qui porta, e una centrifuga che da qui irradia. La necessità di due sguardi sempre, uno interno, di chi ci vive e lavora, uno da fuori che vede diversamente. L’incrocio e sovrapposizione di queste due prospettive è lo strabismo che ci interessa, la giusta distanza.
– Damiano Gullì