Chiara Fumai. Dialogo in attesa della retrospettiva a Ginevra

Doveva inaugurare il 3 novembre la mostra che il CAC – Centre d’Art Contemporain di Ginevra dedica a Chiara Fumai, ma la pandemia ne ha ritardato l'apertura. Intanto ne abbiamo parlato con il direttore Andrea Bellini.

Avrebbe dovuto inaugurare il 3 novembre al CAC – Centre d’Art Contemporain di Ginevra la prima retrospettiva dedicata a Chiara Fumai morta nel 2017 a soli 39 anni. Una rassegna coprodotta dal Centro Pecci di Prato, dove arriverà a marzo, per poi proseguire il suo viaggio a Bruxelles e Madrid. Ne abbiamo parlato con Andrea Bellini, direttore del CAC, in attesa che la curva epidemiologica permetta la riapertura dei musei anche a Ginevra.

Dovendo racchiudere in una parola il genere di attività artistica sviluppata da Chiara Fumai, quella apparentemente più adatta è performance. La mostra che sta per aprire a Ginevra ha invece identificato la scrittura come perno interpretativo. Come è nata questa scelta?
Tutta l’opera di Chiara Fumai ruota attorno all’azione performativa, attorno al suo corpo come ricettacolo di identità altrui. Non si tratta tuttavia di un tipo di performance che può essere rimessa in scena a posteriori, da qualcun altro. L’idea del re-enactment di una performance storica è possibile nel caso di alcuni artisti, quelli che preparano un vero e proprio protocollo a tale scopo, ma non per altri. Ad esempio, una volta Marina Abramović mi disse che Chris Burden non le diede il permesso di rimettere in scena una sua performance storica, quando lei preparava il suo Seven Easy Pieces per il Guggenheim nel 2005, dove poi presentò i lavori di Vito Acconci, Bruce Nauman, Valie Export, Gina Pane e Joseph Beuys.

Quali sono state le motivazioni specifiche in quel caso?
A Burden, l’idea che qualcuno ripetesse i suoi gesti non interessava in alcun modo: quegli esperimenti appartenevano a lui e al suo corpo, e con lui dovevano morire.

E nel caso di Chiara Fumai?
Anche le performance di Chiara Fumai, esclusa qualche eccezione, non possono essere rimesse in scena. L’artista ha voluto che la sua opera si cristallizzasse in qualcosa di diverso dalla performance. Dagli intensi e faticosi viaggi esplorativi nella psiche delle sue donne ribelli, Chiara tornava portando con sé un complesso sistema di segni, piccoli indizi, frammenti di cose. I suoi lavori esistono oggi come costellazioni di oggetti, video, talismani, collage e feticci vari; in breve, un insieme di significanti tenuti uniti – non solo concettualmente, ma anche fisicamente – proprio dalla scrittura. In questo senso noi non abbiamo fatto nessuna scelta particolare, mostriamo semplicemente le sue opere, così come Chiara le immaginava e voleva che fossero esposte.

Chiara Fumai, The Book of Evil Spirits, 2015, production still. Photo PRed

Chiara Fumai, The Book of Evil Spirits, 2015, production still. Photo PRed

CHIARA FUMAI, LA SCRITTURA, LA PERFORMANCE

In effetti, nel tuo saggio in catalogo, sostieni che la scrittura sia “il medium nel quale anche il suo lavoro performativo finisce per cristallizzarsi”. Tutto comincia dalla scrittura e tutto torna alla scrittura, mentre la performance è una sorta di passaggio pubblico in cui la prima fase viene incarnata e incorporata?
Lo studio del pensiero, della vita e soprattutto degli scritti delle sue eroine rappresenta una fase fondamentale della pratica di Chiara Fumai. Grazie a questo processo di ricerca, l’artista crea il suo pantheon di figure femminili, le sue alleate ribelli. Questa alleanza metastorica con un pantheon di personaggi femminili irregolari avviene fondamentalmente tramite la parola e il testo. L’operazione linguistica di Chiara Fumai consiste nell’esplorazione critica di una lingua femminile perennemente in bilico tra cultura alta e bassa, tra rivendicazione politica e psicosi, tra rivoluzione e reazione; emblematico è il ricorso alla storia e ai testi di personalità molto diverse tra loro, come Eusapia Palladino e Carla Lonzi, Rosa Luxemburg e Valerie Solanas, la Dogaressa Elisabetta Querini e Ulrike Meinhof.

Cosa accomuna queste figure?
Le accomuna la tensione a rifiutare quell’identità femminile costruita per loro, nel corso dei secoli, dal mondo patriarcale. Per questa tensione verso l’emancipazione e l’autonomia, il prezzo da pagare sarà per tutte – ecco un secondo aspetto che le accomuna – la condanna, l’incomprensione e molto spesso la solitudine. In qualche modo, quasi specchiandosi nelle sue eroine, anche Chiara Fumai compie un percorso che la conduce a sentirsi sempre più sola e isolata, fino a condividere il destino tragico di alcune delle donne che l’hanno ispirata. In questo senso, l’epilogo della sua esistenza era forse già tutto contenuto nel suo prologo.

Perché Chiara Fumai si interessa alla figura della medium? A questa immagine del corpo della donna come vettore di un’alterità, di una presenza aliena?
Questa è una questione centrale, anche perché Chiara stessa – nella sua azione performativa – si pone sempre come una sorta di medium. Io credo che la dimensione politica della sua opera ci inviti a considerare il suo interesse per la figura della medium come qualcosa di più complesso di una semplice curiosità di natura esoterica o neo-gotica. L’artista sembra considerare il corpo delle medium come un “luogo” emblematico in grado di esprimere un significato che va ben al di là del folclore ottocentesco attorno al paranormale. Dietro l’immagine della medium, del suo corpo come tramite di una presenza “aliena”, si cela una questione che sembra riguardare storicamente tutte le donne. Il corpo femminile – ecco l’intuizione di Chiara Fumai –, sotto la pressione delle società patriarcali, è stato trasformato, ipso facto, nel vettore di una presenza aliena.

Come si configura questa “presenza aliena”?
Questa entità estranea, insinuatasi nella loro psiche, è l’immaginario maschile: un modo di considerare il corpo, il linguaggio, la sessualità femminili come qualità meramente strumentali, a uso e consumo della società patriarcale. Il corpo di tutte le donne, nella società patriarcale, è stato invaso da una presenza aliena: non è la medium in questo senso il soggetto posseduto, il soggetto che viene parlato, ma è storicamente la donna stessa. Da qui l’antipatia di Valerie Solanas, come anche di Chiara Fumai, verso le daddy’s girl, le figlie di papà, quelle donne che si identificano nello stereotipo femminile messo a punto per loro dalle società patriarcali. Seguendo questa intuizione, Chiara decide di opporsi allo stato di alienazione femminile, come fece appunto prima di lei la Solanas, ricorrendo non tanto ai principi teorici e astratti di un femminismo colto, quanto piuttosto impugnando la dimensione sovversiva e liberatoria di un comportamento ribelle, radicale, fondamentalmente punk.

Chiara Fumai, The Moral Exhibition House, 2012. Installation and performance at Karlsaue park, Kassel, commissioned by dOCUMENTA (13) and produced with the support of Fiorucci Art Trust, London. Photo Blerta Hocia

Chiara Fumai, The Moral Exhibition House, 2012. Installation and performance at Karlsaue park, Kassel, commissioned by dOCUMENTA (13) and produced with the support of Fiorucci Art Trust, London. Photo Blerta Hocia

L’ARTE POLITICA DI CHIARA FUMAI

L’arte di Chiara Fumai è squisitamente politica. Estetizzarla non fa altro che disinnescarla. È un’arte femminista? È un linguaggio che utilizza lo strumento linguistico per dare voce, per favorire l’empowerment?
In una intervista Chiara ha affermato: “Tutto quello che ho fatto in questi dieci anni è stato difendere uno spazio contro l’oppressione”. La dimensione emblematica di questa forma di oppressione è stata storicamente la volontà degli uomini di privare le donne della loro voce, della loro lingua, del loro spazio di libertà. In questo senso, credo che l’intera vicenda artistica di Chiara Fumai si svolga in riferimento alla questione politica di una lingua al femminile. L’artista sembra convinta fin dal principio che le donne potessero e dovessero ripartire proprio dal ghetto linguistico nel quale gli uomini le avevano storicamente confinate. Molte figure femminili alle quali Chiara Fumai guarda nel corso dei suoi dieci anni di attività fanno della voce e della scrittura lo strumento privilegiato di una rivolta radicale e senza compromessi. Tornare a esistere come soggetti autonomi significa innanzitutto tornare ad avere un proprio corpo e una propria voce. Il percorso per la costruzione di una nuova identità comporta la necessità di incarnarne di nuove.

Chiara Fumai era un architetto e questa formazione accademica si rintraccia nelle ricerche che stava effettuando nell’ultimo periodo su La città delle dame di Christine de Pizan. Cosa si sa del progetto? E chi era Christine de Pizan?
Negli ultimi mesi della sua vita, Chiara Fumai stava raccogliendo materiale e informazioni su Christine de Pizan (1365 ca. – 1430 ca.), autrice de La città delle dame, un libro scritto tra il 1404 e il 1405. Di origini veneziane ma cresciuta a Parigi, Christine è una delle figure più affascinanti del panorama letterario europeo del XV secolo. La città delle dame è una visionaria città fortificata, al cui interno vivono solo donne: sono guerriere, indovine, poetesse, scienziate e martiri. L’atto stesso della stesura del libro è assimilato da Christine alla costruzione di una città; la metafora architettonica vi ricorre in ogni capitolo. Per costruire la sua città delle donne, Christine deve prima decostruire l’eredità intellettuale maschile, e stabilire l’autorità femminile attraverso la riscrittura della tradizione. Christine elabora con raffinata sensibilità letteraria e storica il suo pantheon di donne, le cui fondamenta sono costituite da eroine del passato, ma non mancano quelle contemporanee. La città di Christine è aperta infatti anche alle figure nuove, alle donne spavalde e indomite, delle quali la scrittrice recupera – contro la condanna sprezzante degli uomini – la grandezza e la nobiltà, grazie alla riscrittura della loro storia.
Purtroppo non sapremo mai cosa Chiara Fumai avesse in mente, in che modo volesse utilizzare la storia e l’opera di Christine de Pizan. Sappiamo però che nella città di Christine la nostra Chiara Fumai trova il suo posto d’onore, e sappiamo che il progetto politico di Christine e di Chiara è il frutto nobile di un processo tanto doloroso quanto irreversibile.

Mi dicevi qualche tempo fa che questa retrospettiva e il catalogo che state per pubblicare sono il frutto di un lavoro collettivo. La mostra tra l’altro viaggerà in quattro differenti istituzioni europee. Chi ha lavorato a questa mostra?
Quando al Centre d’Art Contemporain di Ginevra abbiamo preso la decisione di organizzare la prima retrospettiva di Chiara Fumai, il nostro pensiero è andato subito a Milovan Farronato e al duo Francesco Urbano Ragazzi, tre curatori che nel tempo hanno stretto un legame molto speciale con l’artista, accompagnandola spesso nel suo percorso. A loro abbiamo affidato la curatela della retrospettiva, io mi sono occupato dell’allestimento a Ginevra, dando poi una mano nella concezione del catalogo.
A marzo la mostra andrà al Centro Pecci a Prato, istituzione che co-produce con noi sia la retrospettiva che il catalogo. Il contributo di Cristiana Perrella e dei suoi collaboratori del Pecci è stato fondamentale per la definizione e lo sviluppo del progetto. Dopo Prato la mostra si trasferirà a La Loge a Bruxelles, a settembre 2021, e infine alla Casa Encendida a Madrid, dove aprirà durante la fiera Arco, nel febbraio del 2022. Al catalogo, un libro di 400 pagine edito da Nero edizioni, hanno lavorato tante persone, tra queste un ruolo fondamentale per la stesura della cronologia e per la coordinazione generale l’ha avuto Sara De Chiara. Sono molto felice di riscontrare tanto interesse internazionale verso la figura di Chiara Fumai, questa è la conferma di quanto il suo lavoro sia anticipatore e quindi attuale.

‒ Marco Enrico Giacomelli

Ginevra // fino al 31 gennaio 2021
Chiara Fumai – Poems I Will Never Release (2007-2017)
CAC – CENTRE D’ART CONTEMPORAIN
Rue des Vieux-Grenadiers 10
centre.ch

[EDIT: la data di chiusura sarà probabilmente modificata in conseguenza della chiusura dei musei di Ginevra a partire dal 2 novembre 2020 a causa della pandemia]

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Marco Enrico Giacomelli

Marco Enrico Giacomelli

Giornalista professionista e dottore di ricerca in Estetica, ha studiato filosofia alle Università di Torino, Paris 8 e Bologna. Ha collaborato all’"Abécédaire de Michel Foucault" (Mons-Paris 2004) e all’"Abécédaire de Jacques Derrida" (Mons-Paris 2007). Tra le sue pubblicazioni: "Ascendances et…

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