Una diafana luce trapassa l’ordito dell’opera di Salvatore Manzi (Napoli, 1975), riverberandosi nello spazio della galleria, saturo del fumo rarefatto che ne offusca la percepibilità, per rendersi fenomenica e rivelatrice di quel “luogo secondo”, il Deuteroluogo, oltre il quale lo spettatore è condotto. Questi, spinto al di là di una soglia, alla deriva dell’essere, è partecipe di una dimensione altra, allusiva di un’alterità aprioristica e spirituale, originata a partire dall’intreccio architettonico, la cui forma archetipica è intessuta nella struttura della galleria, interrompendone la trama. Si è come agli albori di una mitogonia, in cui le acufeniche risonanze – prodotte dalla traccia sonora composta da Giuseppe Fontanella, chitarrista dei 24 Grana – indicano la presenza auratica di quell’entità appena percepita, che è apparizione unica di una lontananza. Nel candore alabastrino, cui fa eco la visione ravvicinata della cavità di una conchiglia, nel video Dimora (2019), il proprio corpo, eletto a primo luogo, grado zero dell’esperienza, diviene condizione necessaria perché il contatto tra opera e spettatore si verifichi e perché questi “possano momentaneamente appartenersi”, come afferma la curatrice Luciana Berti.
‒ Rosa Esmeralda Partucci