“Riprendendo il tema dei moduli seriali ho cercato di uscire dal mio assillo della datazione, dilatando il tempo in un periodo astorico e rendendolo percorribile in due sensi, avanti e indietro, nel passato e nel futuro. A Tempo Libero”. Parole eloquenti, quelle di Renato Mambor (Roma, 1936-2014), che Alberto Dambruoso – a proposito del ciclo di opere A Tempo Libero ‒ citava in un suo testo del 2001, scritto in occasione di una personale alla galleria Maretti di Montecarlo. E si legò a Mambor, Dambruoso, con una frequentazione fatta d’affetto, studio, collaborazione, analisi critica, sul filo di una progressiva lettura storica del ruolo internazionale che l’artista si ritagliò, a partire dagli Anni Sessanta, quale protagonista di spicco della scena artistica romana.

UN DISORIENTAMENTO SOTTILE
Dopo la grande mostra del 2017 curata sull’isola di San Servolo, a Venezia, Dambruoso è tornato a occuparsi di questa figura originale, tanto complessa concettualmente, quanto immediatamente seduttiva: il magnetismo di Mambor, tutt’uno con un’idea di leggerezza e di brevità poetica, arriva dalla forza prepotente dell’immagine e dalla sua riduzione a oggetto sintetico, diversamente pop, in qualche modo connesso alla memoria estetica, tattile, percettiva. Un mondo fatto di presenze insolitamente familiari, discretamente aliene: è il perturbante che non ferisce, che non sconquassa, ma che s’insinua piano, spostando il punto d’osservazione con grazia. Il piacere del disorientamento è sottile, come quello – opposto ‒ dell’immedesimazione. Specchiarsi in un reperto del reale e insieme riconoscerlo obliquo, affettuosamente divergente. Riposizionato su un palcoscenico a-prospettico, lineare.

IL PROGETTO A PALERMO
La mostra promossa a Palermo dalla Fondazione Banco di Sicilia, negli splendidi spazi di Villa Zito, non è una retrospettiva scientifica in senso stretto, con ricognizioni museali e contributi da varie collezioni; il progetto nasce da una proposta della gallerista Marzia Spatafora, che col marito Franco Boni, storico mercante e anchorman televisivo, fu molto vicina a Mambor: tra i maggiori sostenitori del suo lavoro, anche e soprattutto sul fronte del mercato, oggi presentano qui una quarantina di opere dalla loro ampia raccolta personale. L’accurato processo di selezione e allestimento, affidato a Dambruoso, ne ha tirato fuori un piccolo exemplum, un campione di quella che fu una vastissima produzione pittorica e scultorea, spalmata lungo quarant’anni, ibridata con la ricerca teatrale e la fotografia, tra specifici fil rouge e una costante vocazione sperimentale.

TEMPO E IDENTITÀ
Il tempo azzerato, dicevamo. La pratica della serialità contagiava oggetti sottoposti a processi d’astrazione, isolati, freddamente ripetuti, da assemblare come moduli regolari (Cubi smontabili, 1966); ma anche riduzioni grafiche di silhouette umane, prima a evocare gli omini dei semafori e dei segnali stradali, poi a rappresentare sagome-bersaglio e infine a ricalcare la figura dell’artista stesso (fra tutte la serie Séparé, già esposta alla Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roma nel 2007). Un meccanismo insieme visivo e cronologico. Si spingevano così verso il grado zero il volume e la concretezza delle forme, l’energia della natura, la voluttà dei colori ricondotti a tonalità piatte, mentre la linea progressiva della storia veniva messa in discussione. Sconfitta la logica inflessibile del tempo e della materia, si puntava a una trasposizione liricamente universale, diacronica, immateriale.
Similmente è accaduto per l’identità dei soggetti, assimilati a forme quasi astratte: uomini a una dimensione, figli di una società degli schermi e schiavi dell’imperativo dei mass media; uomini senza volto di cui evidenziare gli atti puri e la presenza, non il carattere o l’individualità; oppure tracce evanescenti su tavola, su carta, su tela, nelle serie dedicate ai “rulli” (Itinerari, 1968; Itinerario – rullo, 1968) o ai “timbri” (da Mollette replicate, 1960, a Ultimo giorno, 1963): il quotidiano tornava, come eco del reale, nelle file di duplicazioni analogiche, che solo la pressione della mano o la diversa quantità d’inchiostro aprivano alla possibilità di distinzione e di trasmutazione.

Identità tramontata poi nel gioco della sparizione dell’autore e nella sua declinazione plurale: ne è un esempio il progetto Diario 67, composto da undici strutture bianche, affidate da Mambor ad altrettanti amici e colleghi – da Boetti a Tacchi, da Mauri a Icaro, da Mattiacci alla Pirelli – affinché le interpretassero ognuno alla maniera propria. Un unico format, il gesto artistico che coincide con una chiamata poetica alle armi, e una pluralità di mondi, letture, scritture. L’opera fisica, in fondo, non è che la risultante di una serie di relazioni e interpolazioni.
Quanto alla questione della cultura televisiva omologante e della standardizzazione mediatica, criticate già negli Anni Sessanta insieme ad altri artisti del suo entourage romano, in Mambor si intravede una specie di riscatto: quell’universo seriale, monodimensionale, appiattito, diventa qualcos’altro nel linguaggio salvifico dell’arte. Trova un’apertura. È come ricondurre la cosa concreta al piano ideale, liberandola dal suo peso, proiettandola all’infinito; come fare un’arte-filosofia a partire dall’occhio che smette di rappresentare, ricordandosi che essa “serve a pulire lo sguardo”, oltre l’immagine-stereotipo, mentre “insinua un cuneo in questo meccanismo spersonalizzante e ha il potere di ribaltarlo”. Così l’arte affranca, solleva, dissolve, battezza con parole nuove.

QUANDO LA PAROLA AFFONDA
E proprio la parola torna utile al ragionamento. Ancora inabissata, svuotata, perduta, alleggerita, nel riferimento a quel linguaggio che in Mambor si fece perimetro d’indagine, orizzonte intellettuale. “È arrivato un bastimento carico di parole. Un uomo ha fatto un gesto e le parole sono affogate”. È la supremazia dell’esistenza sulla narrazione; è la logica della sensazione, corporea e teatrale, che vince su quella puramente razionale; ed è l’opera come evento, la potenza radicale dell’azione, la pittura come performance, la scultura come esperienza vitale, il gesto umano – non demiurgico, ma quotidiano – come testimonianza certa dell’esistere, del transitare. È qui che s’invera la possibilità di cambiare il mondo e scriverlo daccapo; è così che lo si mette in salvo, nel mare magnum dei segni, dei riflessi, delle ombre e delle illuminazioni.
‒ Helga Marsala