Lezioni di critica #14. Transavanguardia Povera Reloaded

Roberto Ago presenta il suo manifesto, Transavanguardia Povera Reloaded. Includendovi dodici artisti nostrani.

Sono a presentare ufficialmente il mio manifesto artistico, successivo a quelli di Germano Celant e Achille Bonito Oliva. “Transavanguardia Povera” è il brand che ho scelto, “Reloaded” sia per il tenore dell’arte che pubblicizza, sia perché è figlio del senno di poi, quando il terrorismo psicologico che da decenni contrassegna l’esterofilia peninsulare ha mostrato il suo fallimento. All’insaputa degli artisti, inoltre, perché probabilmente non sarebbero d’accordo e perché, a differenza dei miei due illustri predecessori, non ho alcuna intenzione di sobbarcarmi la loro promozione, di cui nemmeno necessitano essendo tutti ampiamente noti. Né intendo andare oltre quest’occorrenza testimoniale, una lezione è più che sufficiente. Qui tutto è sui generis, anche il manifesto ispirato a quello celebre di Boetti, in edizione di dodici quanti sono gli artisti e, soprattutto, in vendita. Anzi se qualcuno dei diretti interessati ne gradisse uno, sarei lieto di barattarlo con una sua opera.

NESSUNA CHIMERA E UNA RICETTA VINCENTE

Che razza di ircocervo fuori tempo massimo ci vuoi vendere?”, si chiederà più di qualcuno. Sappia il malfidato che la crasi di incompossibili del mio manifesto è solo apparente, e poi “composita solvantur”, ci ricorda Franco Fortini. Sono gli artisti più savi del nuovo corso ad aver guardato alle nostre due tradizioni artistiche più recenti senza dimenticare i retaggi ancora precedenti, mixando il tutto secondo l’ineludibile viatico di Nicolas Bourriaud (Postproduction, 2002). Arte Povera e Transavanguardia, d’altro canto, solo superficialmente sono agli antipodi, essendo il loro comune denominatore più importante delle differenze. Esso coincide nientemeno che con la ricetta del successo, e include qualsivoglia artista sappia mediare tra stile internazionale e genius loci comunemente inteso. Allargando il discorso, si può facilmente constatare che anche Futurismo, Metafisica, Informale, Arte Programmata, ecc. condividono la medesima ricetta vincente, la storia dell’arte (non solo) italiana non è che l’elenco di tante negoziazioni tra un “noi” e un “loro” al riparo da ideologie cosmopolite volte ad annullare ogni soglia tra identità e alterità, le stesse che oggi vanno omologando l’arte di qualsivoglia distretto.
Come già i loro “nonni”, anche i transavanguardisti poveri hanno i loro corrispettivi esteri, stavolta in quel ritorno all’ordine generalizzato che ha contrassegnato l’arte internazionale post-11 settembre. A esso andrebbero ricondotti anche per smussarne l’aura di provincialismo, i nostri nulla hanno da invidiare ai più fortunati anacronisti esteri. L’attuale temperie artistica è un fatto storico ineludibile, quasi che dopo la sbornia di novità degli Anni Novanta il postmoderno, che in arte non è altro che una forma ideologizzata di manierismo, abbia ripreso il suo corso, parrebbe per l’eternità. Rispetto ai primi cinque nomi emersi in una precedente lezione, ho voluto essere maggiormente inclusivo in nome di un manifesto propositivo e ottimista. Non entro nel merito dei pregi e difetti che, in misura diversa, riguardano ciascuno di loro. Diciamo che il pregio che li accomuna è quello di testimoniare (e dunque trasmettere) la nostra tradizione artistica, il che di questi tempi non è poco; il difetto, quello di guardare eccessivamente a codici consolidati sia internazionali che nostrani. Non per caso lo stesso brand è clonato. Pur essendo lontani dalle mie papille gustative, si tratta degli artisti italiani più solidi tra quanti emersi nelle prime due decadi del nuovo millennio, tanto da determinare una compagine artistica coerente. Chiunque dovrebbe distinguere la propria cappella palatina dal valore dell’arte che si giudica, e riconoscere che gli artisti qui compendiati sono i migliori soprattutto perché rappresentativi della nostra tradizione. A partire da Fidia l’arte occidentale è sempre stata marketing dell’identità e i transavanguardisti poveri sono maestri della disciplina, anche se mancano di un retroterra critico che li abbia valorizzati in tal senso (almeno, fino a oggi).

A sinistra, Enrico David; a destra, Enzo Cucchi

A sinistra, Enrico David; a destra, Enzo Cucchi

UNA LISTA IN PROGRESS

E tutti gli altri?”, replicherà il lettore nuovamente insospettito. Potenziali transavanguardisti poveri come Mario Airò, Massimo Bartolini, Roberto Cuoghi, Micol Assaël, Giuseppe Gabellone, Francesco Arena, Patrizio Di Massimo, ecc. mostrano a mio avviso troppe fragilità per essere accorpati a questi dodici. Ricordando che riconoscimento pubblico (ma poi quale?) e valore effettivo non coincidono, si può nondimeno ipotizzare che tutti loro e altri ancora, qualora maturassero in linea con la temperie artistica individuata, potrebbero aggiungersi alla lista o gravitare ai suoi margini. Per il resto, non ho certo dimenticato d’includere l’avventura coeva di Paola Pivi, lo stile che la caratterizza più legittimamente la riconduce agli Anni Novanta, e potremmo anche concedere che il celebre “quartetto” divenga una cinquina (Cattelan, Beecroft, Stingel, Vezzoli, Pivi). Deludente, al contrario, la parabola del promettente Piero Golia, invece di tradire radicalmente le proprie radici come gli americani Eva & Franco Mattes, le mitteleuropee Bonvicini e Barba o gli impersonali Claire Fontaine, è pervenuto a una mediazione intermittente tra ironia vernacolare e stile internazionale. Per quanto concerne l’esercito di mid-career in attesa di riconoscimento come dell’oblio definitivo, non possono essere menzionati per motivi ora anagrafici, ora stilistici: in entrambi i casi non sono rappresentativi della temperie artistica relativa ai due decenni appena trascorsi. L’involuzione, infine, delle ultime leve, accomunate da un anonimato stilistico e uno pseudo-impegno mal consigliati, mi pare un dato inequivocabile da fronteggiare con strumenti che non sono certo quelli del Forum di Prato.

L’EQUIVOCA QUESTIONE DELL’IDENTITÀ ARTISTICA ITALIANA

Il mio manifesto non ambisce unicamente alla consapevolezza storiografica (questi dodici artisti sono i più rappresentativi dell’arte italiana degli ultimi vent’anni, il che non vuol dire che siano gli unici bravi), ma anche a essere programmatico (d’ora in avanti è consigliabile fare come loro, se si opera da una provincia marginale come l’Italia). La pedagogia che veicola è indirizzata in particolare alle giovani generazioni, vittime di addetti ai lavori che farebbero meglio a non confondere la critica d’arte con i loro insensati comunicati stampa. Il mancato riconoscimento internazionale dell’arte italiana è tutt’uno con le centinaia di promesse che da anni vengono illuse per quindici mesi di poter ambire alla celebrità, salvo far finta di nulla quando l’anonimato le reclama indietro. Non solo non si sa più discernere l’arte di qualità da quella che non lo è, ma l’ideologia critica è tornata, nel nuovo secolo, sub specie di impegno politico allucinato e stile internazionale d’importazione, due fallacie che si è cominciato a decostruire in alcune lezioni precedenti (evidentemente insufficienti). Finché si continueranno a confondere l’impegno estetico con quello politico e l’identità artistica con la sua negazione, il fallimento è assicurato. Se Jeremy Deller ha potuto ideare un affascinante re-enactment di un violento fatto di cronaca, è perché a contare non è l’evento politico rappresentato, ma la sua efficace simulazione (ovvero una buona estetica). Se l’italo-inglese David ci appare come un neo-transavanguardista d’esportazione, è perché l’identità artistica ha a che vedere con la tradizione a cui si aderisce in relazione all’area geografica in cui si opera. Giocando in casa è consigliabile che i vessilli identitari siano i propri, trasferendosi all’estero non guasta aderire a quelli altrui. Proprio David, tuttavia, dimostra che più proficua ancora è l’ambasciata identitaria fuori confine, un’arte “esotica” è sempre e ovunque la benvenuta. Immaginate che onori avrebbe ricevuto il già citato Fidia se fosse stato invitato alla Biennale di Persia quale ambasciatore dell’Ellade, e viceversa che autogol avrebbe segnato in quel di Atene scimmiottando l’arte mesopotamica. In un mondo progressivamente globalizzato, dove le “buone maniere” sono ineludibili per chiunque, a maggior ragione è consigliabile il protezionismo del proprio galateo. Rettificando in parte quanto affermato da Fabrizio Federici in un articolo che affronta tale equivoca questione, occorre ammettere che il nostro Fidia non esiterebbe ad accusare di altro tradimento la gran parte degli artisti e curatori italiani, perché mai avrebbe confuso una contaminazione legittima con il plagio di modelli stranieri.
In conclusione, occorrerebbe invertire la rotta sucida attualmente per la maggiore sposando una vis promozionale coesa che riguardi unicamente gli artisti capaci di uno stile “italo-planetario”, senza la necessità di manifesti artistici vecchio stampo. Il resto è chiacchiera curatoriale, nel senso deiettivo di Heidegger proprio. A chi gli chiese “perché solo cinque?”, Bonito Oliva rispose che un sesto di pari valore non lo conosceva. Per quanto mi riguarda, la Transavanguardia Povera Reloaded nasce e muore qui, come accennato in apertura il mio manifesto ha un valore puramente teorico, storiografico e paradigmatico. Non spetta a me l’infausto compito di tradire le sue direttive, semmai a quell’arcipelago di incompetenti che è la gran parte dei nostri addetti ai lavori.

Roberto Ago

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Roberto Ago

Roberto Ago

Roberto Ago è figura poliedrica attiva in molteplici rami inerenti all’estetica. Critico delle immagini, iconologo, artista, editorialista, dopo gli studi d’arte presso l’Accademia di Brera sta conseguendo la seconda laurea in filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, con particolare…

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