Biennale di Venezia. Padiglione Italia, il labirinto e la paura del presente

La metafora letteraria del labirinto, come chiave di lettura per le opere di Enrico David, Chiara Fumai, Liliana Moro. E poi la sfida alla complessità che diventa un dispositivo forse troppo invasivo. Ottimo sulla carta, “Né altra Né questa” sembra però non graffiare.

Perdersi e trovarsi. L’enigma del labirinto accompagna la nostra cultura occidentale sin dalla sua fondazione, dalla mitologica impresa di Dedalo di creare a Creta una struttura architettonica in cui imprigionare il Minotauro. Cercare le possibili soluzioni in grado di sciogliere il groppo di una e una sola via di uscita è sempre stata prova in cui si sono cimentati eroi e persone comuni, per sfida, passione o gioco. Ma il labirinto è anche metafora psicanalitica e, forse più di ogni altra cosa, suggestione letteraria, che accomuna autori come Jorge Luis Borges, Fernando Pessoa o Italo Calvino.

IL LABIRINTO CHE DIVIDE

È costruito sulla scorta di queste suggestioni il Padiglione Italia, che raccoglie il lavoro di tre artisti molto eterogenei, rispetto ai quali il labirinto mette in scena, come scrive il curatore Milovan Farronato, “l’impossibilità di ridurre l’esistenza a un insieme di traiettorie pulite e prevedibili, cercando piuttosto di evocare la non-linearità, il dubbio, la transitorietà e l’intuizione come strumenti ineludibili del sapere umano”. Temi di certo affascinanti, filosoficamente e artisticamente fecondi, ma, se si esclude il lavoro di Enrico David, la sensazione è che tale modalità sia funzionale più a innescare un racconto e fornire il display visivo, che per un reale legante tra le opere. Se infatti il lavoro di David tende, anche psichicamente, alla reiterazione e alla continua diramazione evolutiva (per inclinazione personale e per tipologia di medium), il percorso di Liliana Moro è caratterizzato invece dalla distanza, da un’accentuata e difforme puntiformità, rispetto a cui risulta scarsamente significativo tracciare percorsi o linee evolutive. Diverso, e ancora più annoso, il caso di Chiara Fumai: la sua opera, spesso diretta fino alla sfrontatezza, viene inutilmente addomesticata, trasformata in una sorta di cover di se stessa, in versione edulcorata post mortem.

SOVRASTRUTTURA E DESIGN

Più che il necessario innesco, nel complesso la questione del labirinto pare così costituire una sovrastruttura, un apparato giustificativo appoggiato sulle spalle di giganti come Calvino, o, forse, una sorta di excusatio non petita. Detto per inciso, il voler trovare a tutti i costi una fonte letteraria o saggistica per una mostra è spesso più un rischio intellettualistico che un’opportunità concreta, come accadde tra l’altro anche per il bel padiglione curato da Cecilia Alemani nel 2017, in cui però furono gli artisti, specialmente Giorgio Andreotta Calò e Roberto Cuoghi, a prendersi meritatamente a forza la scena. Ciononostante, benché si possa percepire una certa vitalità (esclusa Fumai imprigionata dal non esserci più), il labirinto risponde a nostro avviso più a una necessità di allestimento, senza dubbio raffinato, che a ragioni intime profonde. Potremmo dire che nel complesso la modalità di display ha il sopravvento sul contenuto.

Né altra Né questa: La sfida al Labirinto Padiglione Italia alla Biennale Arte 2019 Photo Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti Courtesy DGAAP-MiBAC

Né altra Né questa: La sfida al Labirinto
Padiglione Italia alla Biennale Arte 2019
Photo Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti
Courtesy DGAAP-MiBAC

IL CURATORE ARTISTA?

La mostra Né altra Né questa può dare a prima vista la sensazione che il curatore abbia agito come artista, cioè contribuendo a creare in prima persona l’orizzonte di senso in cui le opere sono inserite, egli stesso come creatore. In parte è così: Farronato ha scelto di stare a fianco degli artisti, in una posizione che pare del tutto legittima viste le relazioni professionali con i tre invitati, le frequentazioni, gli amori comuni. È una scelta stilistica che molti non apprezzeranno, ma che va rispettata, perché attiene alla sua personale poetica e alle modalità con cui l’arte si fa visibile e fruibile. Piuttosto abbiamo avuto la sensazione che il tipo di sua scrittura tendesse talvolta a schiacciare le voci degli artisti, che la sua verbosità fosse cioè eccessiva nel libero sviluppo diegetico che il labirinto implica. Mentre talvolta le mostre funzionano quando il curatore sa fare il proprio lavoro in forma apparentemente invisibile.

LA PAURA DEL PRESENTE

Rispetto ai padiglioni nazionali generalmente presentati alla Biennale di Venezia, il nostro spazio presenta poi una criticità che dipende non tanto dal binomio curatore/artista, quanto invece dalla sua dimensione. Gli spazi all’Arsenale sono davvero esagerati: in primo luogo rispetto alle nostre capacità organizzative, in particolare rispetto a stati con sistemi culturali più solidi e interventi a sostegno delle arti visive economicamente e sistematicamente più significativi (come ad esempio Germania, Francia, Inghilterra, Stati Uniti); in secondo luogo per il format della Biennale, che, volente o nolente, chiede interventi caratterizzati da incisività, sintesi e forza, anche concettuale o poetica. Noi italiani tendiamo invece a rappresentarci in forma eccessivamente lunga, facendoci spesso precedere dalla nostra storia, incapaci di affidarci al presente e di cavalcarlo. E questo è un male comune anche alla nostra classe intellettuale e dirigente, compresi gli alti funzionari e i ministri che compiono le scelte strategiche su come presentarsi di fronte alla platea globale dell’evento veneziano.
È per occupare tutto lo spazio che ci presentiamo sempre con mostre collettive? Sono decifrabili per un visitatore iper-stimolato come quello della rassegna lagunare? Perché invece non presentarsi con un solo artista, anche in metà dello spazio? Perché non presentare opere realizzate esclusivamente per il progetto mettendo le persone nella condizione di lavorare per più tempo?

Daniele Capra

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Daniele Capra

Daniele Capra

Daniele Capra (1976) è curatore indipendente e militante, e giornalista. Ha curato oltre cento mostre in Italia, Francia, Repubblica Ceca, Belgio, Austria, Croazia, Albania, Germania e Israele. Ha collaborato con istituzioni quali Villa Manin a Codroipo, Reggia di Caserta, CAMeC…

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