Come campano gli artisti?

Lo abbiamo chiesto a un gruppo di artisti italiani mid-career eterogenei, per pratica ed esperienze. Ne abbiamo ricevuto un quadro interessante, nessuna lamentela e tanti spunti di riflessione.

Ci interroghiamo sulla loro pratica, sulle loro esperienze, ci facciamo conquistare o respingere dalla filosofia che sottende alle loro opere, ma non ci chiediamo mai: come vivono gli artisti? La letteratura nella storia dell’arte ci ha abituato a una serie di cliché: dall’artista bohémien al vate, immaginiamo il deus ex machina del sistema dell’arte come uno “scappato di casa”, come si direbbe oggi, o come un guru che campa d’aria e poesia e, rintanato nella propria capanna ai confini del mondo, insuffla la vita e il proprio genio nella materia, facendola rivivere come un novello dio pagano.
Poi, a un certo punto, è arrivato il mito dell’artista-manager, o “imprenditore di se stesso”, ed ecco che l’immaginario muta e dal torso nudo e la chioma fluida e lunga dell’uomo che non deve chiedere mai (chissà perché l’immaginario è per lo più maschile) cominciamo a pensare ad abiti eleganti e scarpe sempre perfettamente lucide, 24 ore, agende di contatti fittissime, opening, appuntamenti per questi self-made man che non hanno più bisogno né di curatori né di gallerie, abili come sono a gestire autonomamente il proprio mercato e la propria immagine. Ma anche qui: è proprio tutto vero? La domanda che si pone il mondo dell’arte di fronte ai presenzialisti è: “Quando lavorano? Quando stanno in studio?”.
La domanda che invece ci poniamo noi è: come vivono gli artisti? “Immagino si faccia fatica in molti Paesi che non sostengono gli artisti attraverso borse di studio, investimenti, fondi e grant, e purtroppo il nostro è uno di quelli”, spiega Marinella Senatore. “Posso anche immaginare che alcuni pensino che insegnare sia una cosa molto attinente alla propria pratica e lo facciano con passione. Io guadagno da molti anni esclusivamente facendo il mio lavoro, sono un’artista che, a dispetto di quello che si può pensare, considerando che lavoro tantissimo a livello istituzionale (come se le due cose non potessero svilupparsi assieme), è sostenuta in realtà proprio dal mercato. Per fortuna questo avviene sempre di più e quindi ho anche la possibilità di avere molti assistenti e di poter dare lavoro a persone che si dedicano ai nostri progetti con grande professionalità – fra l’altro sono quasi sempre ex partecipanti che ho conosciuto lavorando”.

I LUOGHI COMUNI

Altro luogo comune: l’artista deve essere puro! E con questa affermazione la fregatura è doppia. Perché dietro a quella pretesa di purezza c’è molto di più. Non c’è solo la richiesta di un’arte che sia all’altezza di chi la fa e di chi la riceve, non c’è solo il desiderio di incontrare opere libere in libero Stato. Non c’è solo la voglia di soddisfare le proprie più o meno alte esigenze di sapere. C’è il tarlo che si sta mangiando da che mondo è mondo tutto il lavoro culturale. Ovvero, non è considerato un mestiere. E questo vale per tutti: curatori, critici, giornalisti, professionisti del settore e, quindi, anche e soprattutto per gli artisti. Come se prendere denaro in cambio delle proprie idee fosse barattarle con lo sterco del diavolo, cedere alle cose basse della vita. Eppure nessuno si sognerebbe mai di chiedere a uno startupper che ha un buon progetto nel cassetto, a un giovane imprenditore, a un attivissimo artigiano, di prestare la propria opera gratuitamente.
Un Paese emotivo come il nostro, improvvisamente quando si tratta di arte e cultura diventa razionale. E chiede agli autori, agli scrittori, a chi costruisce mondi che fanno crescere tutti di mantenere salda la vocazione, ma di farlo senza compromessi. La parola compromesso tuttavia non ha nulla a che vedere con la solidità delle idee, ma con lo scambio normale e salutare – ineludibile in tutti gli altri lavori – fra prestazione d’opera e denaro.

Marco Raparelli, Resist

Marco Raparelli, Resist

TUTTI CONTRO GLI INTELLETTUALI

Ma quindi di che cosa dovrebbero campare gli artisti? Il mondo di oggi è sempre più severo con chi svolge un mestiere intellettuale. Per l’appunto, non lo considera nemmeno tale. E per vendetta riorganizza la società in operosi e radical chic. Da guida, da persona di riferimento di una società e delle sue evoluzioni, l’intellettuale diventa quasi un pagliaccio edonista, un individuo mollemente poggiato al proprio divano di design che punta il ditino a destra e a manca giudicando gli altri dalla propria posizione di privilegio. È ricco, è bello, non ha amore di famiglia, fa una bella vita a scapito di chi si dà da fare e non ha bisogno di guadagnarsi la pagnotta come tutti gli altri. La ridicolizzazione dell’altro, d’altra parte, è una delle cifre più fastidiose del nostro presente.
Se sei giovane, sei un bamboccione inerme, incapace di gestire la propria vita e le proprie azioni, se sei un intellettuale, sei un cretino che in virtù delle proprie letture pensa di saperne più di tutti (cogliete l’ossimoro), se sei donna, sei debole e fragile. Se sei donna, giovane e artista, sei fregata in partenza. Ma questa è un’altra storia.

PRESTAMI UN’EMOZIONE

È chiaro che questo giro di luoghi comuni non deve essere preso a modello per l’intera società. Per fortuna – ma è anche inutile dirlo – c’è una intera rete di istituzioni, persone, filantropi, professionisti che prende il tutto maledettamente sul serio, sostenendo il mondo della cultura e le proprie evoluzioni. Ma dall’altra parte c’è un’intera fetta di pubblico che pretende un pezzo della carne dell’artista, che si aspetta di ricevere un’emozione, ma in cambio cosa dà? E mentre l’immaginario collettivo favoleggia di vite al massimo, tutti questi loft e questi privilegi dove stanno? Chi frequenta gli artisti sa che invece, a fronte di grandi soddisfazioni personali, c’è anche una identificazione totale con la pratica che richiede sacrifici e l’assenza totale di stabilità.
In questo nostro itinerario abbiamo incontrato artisti realizzati, che vantano un percorso di successo, riconosciuti dai colleghi e dal sistema dell’arte, ma giustamente in grado di analizzarne le criticità. Alla domanda filo conduttore di questa nostra inchiesta, un artista come Luigi Presicce risponde: “Non saprei e a volte me lo chiedo anch’io come fanno tutti questi ragazzi che iniziano ora a sopravvivere a pagare affitti, spese, produzioni, senza gallerie, senza vendere nulla. Io ho visto la fine di un’epoca in cui i collezionisti ti staccavano letteralmente i quadri dal cavalletto, poi è cambiato tutto molto in fretta e chi non si è organizzato è sparito o si è messo a fare altro… Ho iniziato a vendere il mio lavoro da subito a vent’anni (non avevo neanche finito l’Accademia), dipingevo ritratti di ragazze che truccavo da clown e il mio talento pittorico mi aveva fatto guadagnare la copertina di un numero speciale di Flash Art sulla pittura. Lavoravo con una galleria ‘vecchia scuola’ lo Studio d’Arte Cannaviello. ‘Vecchia scuola’ non vuol dire retrograda, vuol dire che facevano le cose a modo, come si faceva una volta e come forse andrebbe fatto sempre: ti mettevano nelle condizioni per le quali non ti poteva mancare nulla, ti compravano tutti i lavori sempre, a prescindere che si vendessero o meno. Poi in effetti si vendevano, ma questo è solo un dettaglio, dettaglio che ti permetteva di stare in studio giornate intere a lavorare su un solo quadro”.
Ciò che spiega Presicce è di grande interesse, perché ci fa capire che non solo sta cambiando il mercato, ma che questo nuovo modo di lavorare sta influendo sulla pratica. Pratica che si è evoluta con un nuovo impegno da parte degli artisti: la creazione di progetti autonomi, la nascita di project space o artist-run project, la curatela di mostre e altro ancora.

Luigi Presicce, L'atelier sur l'herbe, 2017, performance per 12 spettatori occasionali. Fondazione Lac o le Mon, San Cesario di Lecce, Lecce. Fotografia Luigi Negro. Courtesy l'artista

Luigi Presicce, L’atelier sur l’herbe, 2017, performance per 12 spettatori occasionali. Fondazione Lac o le Mon, San Cesario di Lecce, Lecce. Fotografia Luigi Negro. Courtesy l’artista

VISIBILITÀ, MERCATO, SISTEMA DELL’ARTE

In un Paese che vede tuttavia uno sviluppo delle carriere (non solo nel mondo della cultura) più orizzontale che verticale, alla sovrabbondanza degli eventi, delle partecipazioni, delle manifestazioni in cui si è coinvolti, non sempre corrisponde un’effettiva evoluzione della vita delle persone. Se è fallito totalmente il meccanismo della partecipazione in nome “della visibilità” (non ci crede più nessuno), non si sono trovati i giusti anticorpi per risolvere una impasse che è sempre più grande.
Fare una mostra richiede grande impegno e sacrificio, duro lavoro, ma non sempre c’è un gettone di presenza, ad esempio, così come spesso sembra mancare una regolamentazione efficace nella gestione dei rapporti professionali. “Il sistema dell’arte è un’infrastruttura culturale di questo Paese e risente delle stesse problematiche che affiggono tutte le altre infrastrutture. Avrebbe bisogno di interventi urgenti se non si vuole fargli fare la fine del viadotto Morandi. Debolezza e mancanza di visione hanno bruciato due generazioni di artisti veri, la mia e quella precedente – e questa non è un’opinione, è già storia. Ad oggi, ad esempio, non si scorgono i minimi segnali che qualunque mercato dovrebbe dare per essere credibile, ossia definire un suo panorama di riferimento e un sistema di valori discussi e condivisi, ma soprattutto cercare meccanismi di garanzia. Nel mercato dell’arte si vende tutto come se tutto fosse sullo stesso piano. Ma non è così. Il mercato dell’arte non può prescindere dai paradigmi che definiscono la ‘storia dell’arte’. Un mercato dovrebbe avere la necessità di cercare e istituire riferimenti chiari (come il rapporto oro-dollaro o i tassi di cambio determinati dalle banche centrali). Altrimenti ogni valore è opinabile e l’opera di un giovane alla prima mostra può finire per costare di più di un quadro di Previati. Poi però tre anni dopo quel valore si è azzerato e, nei fatti, chi ha pagato un prezzo – magari molto alto – è stato truffato. E questo è un problema molto taciuto nel nostro sistema, taciuto in primis dagli stessi collezionisti, che sono la parte più vulnerabile di questo gioco delle tre carte in cui qualcuno ha interesse a barare”, commenta Gian Maria Tosatti.
Per molti artisti c’è anche la strada dell’insegnamento, ma questo avviene quando c’è una corrispondenza con la propria pratica e con la voglia di un confronto con i più giovani, come spiega con soddisfazione Marco Raparelli: “Mi è sempre piaciuto insegnare, è bello avere un rapporto con i ragazzi, è un impegno che allo stesso tempo ti restituisce tanto in termini di energia. Il mio rapporto con l’insegnamento è buono, so che non tutti gli studenti diventeranno artisti o lavoreranno con la creatività in un futuro, ma cerco di trasmettere le informazioni che ho imparato con il tempo, cercando con la classe un metodo di lavoro che è finalizzato alla valorizzazione dei singoli individui. Allo stesso tempo cerco di trasmettere la capacità di non uccidere i loro sogni”. Ma sia ben chiaro: anche in questi casi l’insegnamento non sostituisce il lavoro dell’artista, che comunque continua a perseguire la propria strada verso il successo nel mondo dell’arte, e caso mai così la completa.

DI CHI È LA COLPA?

Ma gli artisti non ce l’hanno col sistema dell’arte. Sperano che cambi, che si modifichi, che sia meno elitario. Sperano di fare più “fronte comune” con gli altri artisti, contro l’individualismo recente dell’ognun per sé, si aspettano maggiore riconoscimento delle difficoltà, apprezzano tutti i professionisti (galleristi, curatori, istituzioni) così come i supporter (fondazioni, collezionisti, mecenati) che combattono al loro fianco e i network di residenze come momenti di scambio e formazione. “Per me che non avevo un soldo bucato”, continua Senatore, “era l’unico modo per viaggiare, per conoscere altri artisti e per mettermi in discussione, visto che a me interessano esclusivamente i progetti site specific, quando faccio residenze”.
C’è anche chi è più critico, pur menzionando fulgidi esempi di gallerie e collezionisti illuminati. Come Presicce, che dice: “Un sistema dell’arte si dovrebbe occupare di noi e darci le condizioni ottimali per poter solo lavorare. Sembra inutile continuare a ripetere che ci sono Paesi in cui i propri artisti vengono sostenuti e finanziati come se fossero una risorsa importante. Qui non è così, a partire dalle tasse che paghiamo e da come veniamo trattati dalle istituzioni, che se non hai i soldi per finanziarti da solo, le mostre nei musei non le fai, le biennali non le fai, i progetti sfumano, l’età avanza e aspetti il premio alla carriera, dopo che l’hai sostenuta con i denti stretti questa ‘carriera’, vedi Carol Rama, Gianfranco Baruchello e forse troppi ce ne sono da non riuscire a nominarli tutti”.
Per molti però “la colpa” è più che altro dello Stato, che non ha saputo ancora valorizzare la figura dell’artista italiano con una rete di opportunità, sistemi previdenziali, grant, come avviene in altri luoghi del mondo. Ovviamente le occasioni non mancano (Movin’ Up, ad esempio, o alcuni progetti promossi dal Ministero, da Italian Council o Grand Tour d’Italie), ma l’auspicio è che aumentino: “In altre esperienze all’estero dove sono stato invitato, le spese venivano coperte da chi mi invitava o altre volte le ho dovute coprire io, mentre quando ho invitato artisti stranieri a fare dei progetti qui in Italia ho potuto vedere che avevano una facilità diversa a farsi coprire le spese, dal loro istituto di cultura o da altre istituzioni. Una facilità di azione e di sostegno diversa”, chiude Raparelli.

Santa Nastro

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #48

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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