Contro ebrei e omosessuali. Il caso della targa d’artista al museo di Livorno

Scontri, provocazioni, azioni estreme e dibattiti accesi, fra la strada e il museo: l’arte pubblica e i grandi temi storici, politici, sociali. Un caso fa discutere a Livorno. A proposito di nuovi fascismi e di responsabilità culturali.

È rimasta integra per poche ore la targa in ottone affissa sul muro esterno del Museo della Città di Livorno, guidato dalla curatrice Paola Tognon. Una manciata di parole, taglienti come lame: “Vietato l’ingresso agli ebrei e agli omosessuali”. E no, non è il risultato di un improvviso rigurgito nazifascita, da parte delle amministrazioni comunali o dell’istituzione museale. Si tratta di un progetto d’arte pubblica firmato dalla trentatreenne milanese Ruth Beraha. “Io non posso entrare” è il titolo di un lavoro pensato come provocatoria rappresentazione di sé o di chiunque guardi, legga, si rifletta sulla superficie lucida: tutti siamo, potenzialmente, oggetto di marginalità e di discriminazione; tutti potremmo essere quell'”Io” a cui l’accesso è negato. E il “noi” rimane il vero soggetto sospeso, silenziosamente evocato, necessario a una presa di coscienza e a una redenzione.

L'opera di Ruth Beraha a Livorno

L’opera di Ruth Beraha a Livorno

AUTORITRATTO ANTIRAZZISTA

È un autoritratto di me stessa“, ha spiegato l’artista al quotidiano on line Livorno Today: “Ha delle caratteristiche fondamentali: è specchiante e richiama le classiche targhe dei notati o degli avvocati, che denotano luoghi di potere e sono anonime. Lo scopo era quello di far rispecchiare il volto di chi leggeva la targa“. Dunque, tra la nota biografica e l’escamotage scioccante, si è provato a sollecitare una riflessione sull’orrore di certe pratiche, spazzate via dalle (recenti) conquiste democratiche, eppure sempre incombenti.
Il piano è quello di una quotidianità banale come una quasi invisibile targa sul muro, alterando luoghi, significati, percorsi abituali: stratagemma utile a risvegliare nei passanti una memoria che brucia e che deve continuare a bruciare. Mai più apartheid, razzismo, omofobia, pregiudizio. Mai più stigma sociale.
Qualcosa però non ha funzionato. L’opera, parte di una mostra inaugurata in occasione del primo compleanno del museo, è stata oggetto di polemiche, di accese discussioni sui social e infine di un gesto di protesta: imbrattata lo scorso 30 aprile con una bomboletta di acrilico nero, essa rivela oggi il senso di un rifiuto collettivo. Quella macchia che sporca ma non cancella le parole di odio, è il segno di una ferita. Ed è probabilmente ciò che completa l’oggetto, nel suo rapporto inevitabile con spazio sociale: davvero compiuto, nel frangente della sua tentata distruzione.

L'opera di Ruth Beraha vandalizzata

L’opera di Ruth Beraha vandalizzata

LE RAGIONI DI CHI HA COPERTO LA TARGA

Non si è certo nascosto l’autore del gesto, rivendicato come atto di dissenso e affermazione culturale: si tratta di uno studente di Livorno, frequentatore della biblioteca al piano superiore del palazzo, che sul citofono accanto alla targa ha lasciato una copia de “Il sentiero dei nidi di ragno”, romanzo di Italo Calvino ambientato nella città toscana e dedicato al tema delle lotte partigiane. Una ‘contro provocazione’ positiva, di memoria e di testimonianza, di parola e di condivisione letteraria. Poi, il confronto con l’artista e la direttrice: “Per quanto si tratti di provocazioni artistiche“, ha spiegato il ragazzo, “così si sdogana una deriva pericolosa e, siccome non tutti hanno le chiavi per decifrare i codici dell’arte contemporanea, in questo modo si presta troppo il fianco al fraintendimento“. Quindi la richiesta di rimozione: “Quella targa non deve stare lì perché presta il fianco al fraintendimento e a lasciar crescere una mentalità discriminatoria“.
Severo ma giusto? Nell’intenzione dell’artista di mettere in scena l’osceno, di condurre una simulazione il più possibile ingannevole, il tasto dell’ambiguità si fa insidioso. Con un doppio rischio: da un lato fermarsi alla mera provocazione, al giochino disturbante che fa il verso alla realtà peggiore e stuzzica lo scandalo sui media; dall’altro assecondare chi, per ingenuità o cattiva coscienza, non coglie l’incongruenza di un divieto palesemente incostituzionale, fuori legge, fuori da ogni buon senso.
Confusione da mettere in conto, in una fase storica che riporta a galla l’impensabile: dalla vox populi più meschina, infarcita di razzismi e rigurgiti fascisti, a determinate strategie di comunicazione politica, inquinate dal cancro della disinformazione e orientate alla logica violenta dei confini, dei nazionalismi, della paura del diverso. La linea che divide realtà e ipotesi estrema si assottiglia, al punto da indebolire il piano della satira, del paradosso concettuale e del racconto assurdo, che così assurdo, per alcuni, non è.

Ruth Beraha e Paola Tognon, ph. Livorno Today

Ruth Beraha e Paola Tognon, ph. Livorno Today

FALLIMENTI E RIVENDICAZIONI

Cosa ne sarà della targa sfregiata? Ripulirla? Staccarla dal muro? Lasciarla com’è? Nessuna intenzione di toglierla, ha subito specificato Paola Tognon. Accogliendo poi la volontà dell’artista: “Ruth Beraha ha scelto di lasciare la sua opera, la targa, nella sua condizione attuale, annerita e quindi censurata. A monito e con la consapevolezza di una lotta contro ogni discriminazione“. Così, mentre l’artista e il museo rivendicano la legittimità di un intervento nato con le migliori intenzioni, la vera questione riguarda il senso di responsabilità che l’arte è chiamata a coltivare, tra mostre, opere, mission dei musei, interventi fra le piazze e le strade. La complessità dei progetti, l’articolazione del pensiero, la radicalità di ricerche capaci di mettere in discussione linguaggi, sistemi, immaginari, restano sfide difficili ma necessarie: oltre l’espediente polemico, oltre il più curioso casus belli, oltre il fragore di una scritta aggressiva, che non vince il sospetto del mero ‘pretesto’, il discorso dell’arte chiede una forza intellettuale profonda e diversa.
E intanto il messaggio urticante resterà oscurato. A ricordare come, anche dal proprio relativo fallimento, un’opera iscritta nello spazio pubblico resti aperta. A generare nuove linee di senso, nuove istanze critiche e ulteriori rivendicazioni collettive.

 – Helga Marsala 

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, giornalista, editorialista culturale e curatrice. Ha innsegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a…

Scopri di più