Pop Art a Milano

Palazzo Lombardia, Milano ‒ fino al 29 maggio 2019. Una mostra corale fa il punto sulla Pop Art milanese, con una ricognizione sui protagonisti noti e meno noti. Emergono così specifiche peculiarità, in attesa di un percorso di storicizzazione e valorizzazione (sul mercato).

Esiste una Pop Art italiana e – soprattutto – una sua declinazione milanese? È l’interrogativo persistente che ci si pone nella grande mostra Pop Art e altre cose. Arte a Miano negli anni Sessanta, che Arteutopia, con Regione Lombardia, Collezione Koelliker e altre realtà hanno messo in piedi con la curatela di Elena Pontiggia, autrice anche di un saggio critico in catalogo. La Pop milanese è distante da quella romana anche per molte sue declinazioni attente al fare pittorico e al suo sviluppo. Questa mostra è una vera e propria immersione in cinquanta opere, molte delle quali inedite, di circa venti artisti: dalla lotta politica e dal mito di Cuba, tracciato con rigorosa progettualità da Fernando De Filippi, all’oggettualità di Lucio Del Pezzo all’immaginario intriso di echi dechirichiani di Emilio Tadini; dal mix di icone provenienti dal mondo del consumo di Sergio Sarri alle “icone bizantine” (come le definì Emilio Scanavino) di Tino Stefanoni. Le vie di ricerca sono evidentemente differenti, ma comunque lontane dalla patinata esaltazione della mitologia consumistica americana o dagli archetipi escogitati nell’immaginario delle coeve esperienze romane.
L’impegno degli artisti milanesi – di alcuni, soprattutto – si è concentrato piuttosto sull’analisi sociale, antropologica e politica del loro tempo e la Pop è servita come linguaggio, come immaginario capace di veicolare taluni messaggi guardando alle immagini dei telegiornali o dei quotidiani piuttosto che a quelle patinate delle riviste di moda e costume. Ecco perché è giusto storicizzare una stagione molto complessa, come quella milanese, ancora un po’ trascurata dal mondo degli studi e dal mercato.

Gianni Bertini, Questo nottambulo di Zorro. I due astronauti, 1965. Photo Pier Enrico Ferri

Gianni Bertini, Questo nottambulo di Zorro. I due astronauti, 1965. Photo Pier Enrico Ferri

POP OPPURE NO?

La mostra è anche l’occasione per riflettere, naturalmente, sui legami (o le estreme distanze) dagli artisti Pop di area milanese.
È molto interessante, a proposito, quanto emerge dal corposo saggio di Elena Pontiggia pubblicato nel catalogo della rassegna, dove la studiosa ha anche riportato una serie di riflessioni di merito precisate dai protagonisti della mostra, tramite dialoghi diretti (che si rintracciano anche nell’intervista video a chiusura del percorso espositivo, curata da Stefano Sbarbaro) o stralci di vecchie interviste. Secondo Enrico Baj – passamanerie e oggetti di recupero propongono, anche in mostra, un’idea di arte visionaria e narrativa –, “La Pop Art… partì da premesse ironiche e dissacratorie della società consumistica… Ma poi divenne la monumentalizzazione e la celebrazione di quella società che voleva criticare. […] In cosa consiste la Pop Art? In una visione enfatizzata dei simboli della vita americana: la bandiera e il tirassegno, l’hamburger, la Campbell Soup; il fumetto ingigantito […]; le riproduzioni di Marilyn e della sedia elettrica; le lattine di birra; i numeri; gli strumenti di lavoro come asce, martelli e catene; la Coca Cola; il concetto asettico del nudo; l’accozzaglia di ferri vecchi e arrugginiti provenienti dal macchinismo industrialista […]. L’elenco può allargarsi all’infinito”. Mentre Fernando De Filippi, che tra Anni Sessanta e Settanta ha riflettuto con coerenza sugli statuti propri dell’ideologia e del ruolo sociale dell’arte, anche con interventi pionieristici nello spazio pubblico, afferma: “Io non pensavo di fare Pop Art, ma qualcosa contro”; e difatti Sergio Sarri ha precisato: “Abbiamo assimilato l’alfabeto della Pop Art, quel modo di dipingere immagini popolari, ispirate al cinema, al fumetto, ecc., ma poi abbiamo espresso concetti completamente diversi, che con la Pop Art non hanno niente a che fare: io ho riflettuto sul sociale, altri sulla politica”.

Tino Stefanoni, I flaconi 53, 1969. Photo Bruno Bani

Tino Stefanoni, I flaconi 53, 1969. Photo Bruno Bani

DIPINGERE

È la pittura, soprattutto nelle sue declinazioni bidimensionali, a contraddistinguere il percorso allestitivo. Ma non mancano le eccezioni.
E se quattro opere di Mario Schifano, Tano Festa, Mimmo Rotella e Giosetta Fioroni precisano le coeve vie del lavoro degli artisti in area romana, le opere di Enrico Baj, Valerio Adami, Gianni Bertini, Lucio Del Pezzo – la sua Mensola oro con sfera rossa e tassello grigio rivela anche l’aspetto oggettuale e tridimensionale della Pop milanese –, Emilio Tadini (che in questo momento alla Fondazione Marconi è celebrato da una retrospettiva dedicata proprio ai suoi Anni Sessanta e Settanta ‒ un po’ freddi al dire il vero), Umberto Mariani e Tino Stefanoni, con quattro opere di pregio, ribadiscono la natura rigorosa della sua indagine sull’oggetto di consumo e i suoi profili.
Schifano rappresenta l’apoteosi della Pop romana, ma vale la pena citarlo a proposito di etichette e luoghi comuni che attraversano da sempre l’arte e la sua divulgazione. La testimonianza, riportata anche dalla Pontiggia, è raccontata da Fulvio Abbate: “‘Ma è vero che sei un pittore pop?’ E lui prendeva a lamentarsi: ‘Non puoi dirmi così, non puoi dirmi così!!!’”.

Lorenzo Madaro

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Lorenzo Madaro

Lorenzo Madaro

Lorenzo Madaro è curatore d’arte contemporanea e, dal 2 novembre 2022, docente di ruolo di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia delle belle arti di Brera a Milano. Dopo la laurea magistrale in Storia dell’arte all’Università del Salento ha conseguito il master…

Scopri di più