Antonio Ligabue, il pittore che si credeva una tigre. A Padova

I Musei Civici agli Eremitani di Padova rendono omaggio al pittore svizzero Antonio Ligabue: un ritorno alle origini nel cuore della foresta padana, stralunata e fantastica, del “Matt” di Gualtieri. Tra belve feroci e rapaci predatori.

C’è chi, come Guareschi, della “stramberia naturale” aveva fatto una questione padana, rimettendo la causa alle insolazioni e alle tristezze malinconiche che svaporano sulle rive del Po. Tra i filari di pioppi della campagna reggiana, un uomo con uno specchio al collo parlava la lingua degli animali, gli unici che avevano il coraggio di avvicinarlo, e come loro emetteva richiami grotteschi. Come ogni villaggio che si rispetti, anche Gualtieri aveva il suo “matto” da segnare a dito, che attirava gli sguardi come una bestia rara: la vita di Antonio Ligabue (Zurigo, 1899 – Gualtieri, 1965) trascorse in esilio sotto un cielo estraneo. Un’esistenza “randagia”, tra psicosi e manicomi, da quando la madre adottiva lo aveva fatto espellere dalla Svizzera per comportamenti aggressivi. Ritirato a vivere in capanni dismessi lontani dalla storia, sembrava già scritto il destino di un vinto dalla miseria: ma Antonio cambiò il cognome del patrigno Laccabue, macchiato dell’assassinio della madre, in Ligabue, quello della consapevolezza del proprio talento. Lungo il sentiero solitario della sua arte trovò il riscatto dalla penombra in cui la diversità l’aveva relegato, fino ad attirare l’attenzione della critica neorealista quando ancora era in vita.
L’uomo e il pittore si stringono in un nodo inestricabile: nella monografica agli Eremitani di Padova sfogliamo il diario intimo del “Matt” di Gualtieri, tra cartelle cliniche e capolavori nati per istinto e necessità. Sono lontani i tempi in cui Ligabue barattava una tela per un piatto di minestra, ripetendo: “Io sono un grande artista. Quando sarò morto i miei quadri costeranno tanto!”. E per quanto folle potesse sembrare questa frase, alla fine la ragione l’ha avuta proprio lui.

Antonio Ligabue, Autoritratto con libellula, 1959. Collezione privata

Antonio Ligabue, Autoritratto con libellula, 1959. Collezione privata

LE VITE POSSIBILI DI UN ANTIEROE

Tra confessione e psicanalisi, Ligabue registra con meticolosa follia un catalogo di umori instabili: la serie degli autoritratti dispiega tutte le vite possibili a lui negate. In una liturgia di tele che scorrono monotone come i suoi giorni prova a cogliere ossessivamente un dentro che nessuno voleva conoscere: orecchie a sventola, naso adunco e gozzo pronunciato sono le stigmate della sua emarginazione, al limite della caricatura; la ferita aperta sulla tempia a suo dire rigettava gli umori malefici. Sul suo volto indaga una metamorfosi fisica desiderata a ogni costo, dai travestimenti con cappello fino all’autolesionismo per crearsi un rostro da rapace. Gli occhi allagati da un dolore lancinante sono gli stessi del toro della Corrida, ferito anche lui nell’anima dai colpi inferti per diletto dagli uomini.

Antonio Ligabue, Il serpentario, primavera 1962. Collezione privata

Antonio Ligabue, Il serpentario, primavera 1962. Collezione privata

NELLA GIUNGLA DELLO SCIAMANO

I paesini incantati della Svizzera si affacciano sui campi padani, rigati dalla fatica di animali mansueti: un primaverile universo agreste popolato da macchiette senza volto. La sua idea di mondo è un puzzle sgrammaticato d’immagini ruminate per anni, dalle figurine Liebig, dalle enciclopedie e dai film d’avventura. Ma la sua mente in balìa dei moti dell’anima trapassa dalla quiete alla tempesta: i cavalli imbizzarriti rovesciano le diligenze e i castelli fiabeschi si sfaldano per lasciare il posto a una natura primordiale, materica e viscerale, come le sue sculture.
Con i rituali di uno sciamano, Ligabue precipita in se stesso e le pulsioni occulte straripano sulla tela. Tigri e leopardi balzano dalle gabbie insieme alle angosce del pittore e alle frustrazioni che lo portavano a cercare attimi di felicità indossando vestiti femminili. Tra i fiori brulicano cattivi presagi: i ragni assumono proporzioni irreali in una selva di teschi, eccessi narrativi inquietanti che traboccano dall’inconscio come incubi ricorrenti. Le fiere infestano una giungla padana allucinata e insidiosa: gli oranghi rapiscono bambole bionde e l’eterna lotta degli animali è la proiezione di un conflitto ferocemente umano con il mondo. Niente vinti né vincitori: Ligabue coglie l’istante dell’aggressione senza interessarsi all’esito, perché la violenza non ha fine e le sorti si possono sempre capovolgere. Cervo assalito dai cani nella realtà ma fiera dominante sulla tela: questo è Antonio Ligabue, il pittore che conosceva gli animali nella forza e negli istinti, sapeva “come sono fatti anche dentro”. Un omaggio a un’anima nomade e solitaria, che guardava alla natura con ammirazione sincera e sguardo limpido: a un artista libero, che trovava rifugio dagli attacchi del mondo nella bellezza minuziosa dei manti delle sue fiere, fra il piumaggio impalpabile dei rapaci, nel colore di un ruggito.

‒ Serena Tacchini

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Serena Tacchini

Serena Tacchini

Serena Tacchini è laureata in Lettere moderne presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con una tesi in letteratura italiana sul colorismo poetico del padre dell’ermetismo, Camillo Sbarbaro. Attualmente si sta specializzando in Archeologia e Storia dell’arte presso lo…

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