Un’arte agghiacciante

Il ricorso al ghiaccio è una scelta compiuta da numerosi artisti contemporanei. Carlo e Aldo Spinelli ne propongono una carrellata.

Qualche cubetto di ghiaccio galleggia nel bicchiere. Se così non fosse, se la sua densità superasse quella del liquido che lo sostiene e perciò andasse a fondo, immergendosi nella bibita, forse non si sarebbe creata la vita sulla Terra. Perché, in assenza del moto di convezione, la superficie del globo si sarebbe via via ricoperta di ghiaccio fino alle più estreme profondità, non lasciando spazio agli scambi biochimici e al libero movimento delle cellule primitive. Se l’acqua è importante, non è quindi da meno la sua forma solida. E lo è ancor di più il circolo virtuoso che trasforma l’una nell’altra, coinvolgendo anche lo stato gassoso del vapore che si va a riconvertire in pioggia.
Queste allusioni ai massimi sistemi che permettono la vita fanno venire alla mente le molte opere di Pier Paolo Calzolari che, nella loro apparente staticità e nella “freddezza” delle loro componenti materiche, contengono la dinamicità di un continuo equilibrio instabile tra il freddo e il caldo, tra il liquido e il solido, tra l’amorfo e le continue pulsazioni di un movimento quasi vitale che non si vede.
Tuttavia, il ghiaccio nell’arte contemporanea non si presenta in artefatti che lo mostrano nella verosimiglianza della riproduzione, ma compare sempre nella sua realtà scultorea, nella freddezza della sua trasparenza e nella sua estrema volubilità alle variazioni termiche. È una materia prima anomala e, proprio per questo, così stimolante per le cosiddette “arti plastiche”. Con una massa e un volume più o meno consistente e corposo, la scultura è caratterizzata dalla sua statica immobilità. Certo, vi sono delle eccezioni quando intervengono agenti esterni umani o meccanici, o addirittura naturali come il vento o l’umidità che riesce a modificare la materia. Con il ghiaccio interviene un’ulteriore variabile: la temperatura, che, unita al trascorrere del tempo, aggiunge alla mano e alle intenzioni dello scultore un’esplicita accelerazione verso il disfacimento, il disordinato ossequio all’entropia che porta al dissolvimento finale in una pozza d’acqua.

Néle Azevedo, Melting Men, Belfast 2012

Néle Azevedo, Melting Men, Belfast 2012

DA AZEVEDO A ELIASSON

È questo il destino delle migliaia di figurine umane che l’artista brasiliana Néle Azevedo ha presentato in diverse occasioni in mostre all’aperto. Questi “melting men” – omini “solubili” di ghiaccio – stanno seduti su gradini di scalinate o altro genere di spalti; nella loro deperibilità sono un simbolo tanto scontato quanto ambiguo: non solo l’arte, anche la vita è effimera. Nonostante abbiano l’apparenza della purezza del cristallo, col tempo si deformano, si piegano su loro stessi, ognuno subisce un differente destino che, tuttavia, alla fine risulta univoco e comune per tutti quanti (“Eri acqua e acqua ritornerai”).
Altri pezzi di ghiaccio, questa volta più grandi e legati a una differente simbologia, sono quelli presentati da Olafur Eliasson a Parigi, nella Place du Panthéon, nel dicembre del 2015. Dodici blocchi (per un totale di 80 tonnellate) prelevati dagli iceberg della Groenlandia e disposti in circolo come le dodici ore dell’orologio: un segnale, un avvertimento sulla drammaticità degli effetti del cambiamento climatico e del riscaldamento globale. “Esprimere l’amore per il nostro mondo. E quindi anche le preoccupazioni per il suo futuro, per ciò che ne mette a rischio l’armonia. Questo per me è arte”, ha affermato Eliasson, che non è nuovo a queste opere di ghiaccio. Già un anno prima aveva presentato questo stesso Ice Watch al centro della piazza del Municipio di Copenaghen. Ma, andando indietro nel tempo, si può notare una vera e propria ossessione dell’artista danese per il ghiaccio. Con Your waste of time (2006) sono sempre giganteschi blocchi di ghiaccio a essere i protagonisti. Ma questa volta non vengono abbandonati agli effetti del calore: esposti in una galleria climatizzata con un raffreddamento radicale, mostrano soltanto la presenza di una “scultura” che ha più di ottocento anni e che sta a noi decidere se conservare o meno. E poi, con Ice Pavilion e BMW H2R, altri oggetti di uso quotidiano sono stati congelati, come a volerli conservare o quantomeno mantenerne la memoria in previsione di un imprevedibile futuro. Il tutto anticipato da una serie di fotografie (Ice series, 1997) che nella loro minuzia classificatoria hanno preceduto tutti i successivi lavori con questa freddissima e lucidissima materia prima.

La Kate Moss in ghiaccio di Marc Quinn

La Kate Moss in ghiaccio di Marc Quinn

DA MARC QUINN A PIETER BRUEGEL IL VECCHIO

Ovviamente molti altri artisti si sono serviti di questo stesso mezzo. Kirsten Justesen, anche lei danese, mette a confronto il proprio corpo con grandi cubi di ghiaccio, indossando soltanto un paio di stivali e guanti di pelle per sottolineare una esasperata comparazione plastica: il calore del primo e il dissolvimento del secondo, coinvolgendo gli spettatori nelle varie performance intitolate Meltingtime. Più lavorato, più scolpito è invece il ritratto in ghiaccio di Kate Moss realizzato da Marc Quinn (che anticipa quello in oro massiccio): una grande abilità nella labilità della materia prima. Ancor più volatili sono i quasi ricami di Simon Beck, che progetta al computer fitte trame geometriche per poi realizzarle su vaste distese di neve che di notte si cristallizza e diventa un preziosissimo pavimento per una pista di pattinaggio. Quasi come quelle raffigurate da Pieter Bruegel il Vecchio, il vero anticipatore delle opere realizzate con questa inconsueta materia prima.

Carlo e Aldo Spinelli

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45

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Carlo Spinelli

Carlo Spinelli

Laureato in Lettere Moderne e iscritto a Storia Antica, viaggia mangia e scrive in ordine sparso per ItaliaSquisita, Rolling Stone, La Cucina Italiana e Wired. Approfondendo l'antropologia dell'alimentazione nel contemporaneo mangiare, tra culture e geografie all'antitesi, ama in egual misura…

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