Take Me (I’m Yours). La trasformazione dell’opera d’arte

All’HangarBicocca di Milano, cinquantasei artisti disperdono la presenza e de-materializzano l’oggettualità dell’opera d’arte. La collettiva concepita per la Serpentine Gallery da Hans Ulrich Obrist e Christian Boltanski nel 1995, dopo Parigi, Copenhagen, Buenos Aires e New York, arriva nello Shed. Un’installazione totale che si arricchisce di nuove modalità fruitive, di nuovi futuri e riflessioni. Le co-curatrici Roberta Tenconi e Chiara Parisi raccontano i dettagli.

Come ha affermato Hans Ulrich Obrist, in mostra, durante l’anteprima di presentazione di Take Me (I’m Yours): “Solo gli artisti possono concepire un’opera pronta a dematerializzarsi. Deve venire da loro l’impulso a lasciare che l’integrità di un lavoro possa essere smembrata, e questa metodologia espositiva non deve assolutamente essere strumentalizzata. Félix González-Torres è stato uno fra gli artisti che aveva partecipato personalmente a questo cambio delle regole del gioco: le mostre devono vivere al di là del luogo espositivo. Ogni percorso, non solo l’opera d’arte in sé, è un archivio vivente che viaggia assieme e attraverso le istituzioni ospitanti, acquisendo un’altra temporalità, al di là della presenza oggettuale, fisica che lo rappresenta. E il curatore, in “Take Me (I’m Yours”) ha il ruolo di continuare a ricercare opere consapevoli di essere quasi-oggetti, che trovano spazio anche quando noi non le percepiamo più nella loro interezza, nel loro statuto di intoccabilità”.
In Take Me (I’m Yours) i cinquantasei lavori esposti si possono toccare, usare o modificare; si possono consumare o indossare; si possono comprare e perfino prendere gratuitamente, o magari portare via lasciando in cambio oggetti d’uso personale. L’idea del progetto è iniziata con Quai de la Gare (1991), un lavoro di Christian Boltanski costituito da montagne di vestiti di seconda mano che il pubblico poteva prendere e portare via in una busta marchiata con la scritta Dispersion.
La possibilità di asportare una delle migliaia di copie, o un frammento di ciascuna opera prodotta, sta svuotando lo Shed, di volta in volta, modificando l’aspetto, l’ossatura della mostra anche attraverso performance (da Cesare Pietroiusti a Patrizio di Massimo, da Otobong Nkanga a Pierre Huyghe) in cui lo scambio non è necessariamente legato a un oggetto ma piuttosto a un’esperienza, assecondando un’idea di immaterialità materiale.
Lo zoccolo duro degli artisti, come Hans-Peter Feldmann e Christian Boltanski, è presente”, sottolinea la co-curatrice di Take Me (I’m Yours), Chiara Parisi, “ma c’è una parte completamente nuova e qui viene portata all’estremo, come succede con il lavoro di Giorgio Andreotta Calò”.
Questa versione”, rimarca Roberta Tenconi, co-curatrice della mostra, “è la più estesa mai realizzata ed è inaugurata in contemporanea al Jewish Museum di New York (terminata il 5 novembre). Il primo percorso espositivo comprendeva solo dodici artisti. Inoltre, qui in HangarBicocca ogni singolo lavoro si trova in una sola stanza e il dialogo, la presenza delle opere diventa democratica all’ennesima potenza, lo spazio è davvero il medesimo per ogni singolo approccio. Inoltre, rispetto alle altre mostre, ci siamo allargati e abbiamo sconfinato nell’atrio [basti pensare a Wish Tree di Yoko Ono 1966-2017, N. d. R.]”.

Francesco Vezzoli, Take my Tears, 2017. Courtesy Francesco Vezzoli & Pirelli HangarBicocca, Milano. Photo Agostino Osio

Francesco Vezzoli, Take my Tears, 2017. Courtesy Francesco Vezzoli & Pirelli HangarBicocca, Milano. Photo Agostino Osio

L’INTERVISTA

Ma è mai successo che un’opera d’arte si esaurisse?
Certamente, ma la modalità di ricomposizione dell’opera varia da istituzione a istituzione. A volte si è lasciato che il lavoro sparisse completamente dalla sala all’interno della quale era installato, altre volte, invece, si è pensato a ricomporlo. Inoltre, dipende anche dal dialogo che si è instaurato con l’artista: ad esempio i biglietti da visita di Herman Chong, che sono un milione, potenzialmente non finiranno mai. Le spille di Gilbert & George sono migliaia e consigliamo sempre di prenderne solo una per ogni visitatore, ma ovviamente non possiamo imporlo. Per quanto riguarda i disegni di Pietroiusti, invece, sono solo 3000, mentre le uova dipinte a mano da Friederike Mayröcker e Sarah Ortmeyer, poetessa ultranovantenne viennese, variano di settimana in settimana. Ogni domenica si trova in mostra un uovo speciale, firmato.

Per quale motivo la mostra comincia con un’opera al di fuori dello spazio espositivo?
Idealmente il progetto della mostra è basato sulla riflessione che riguarda la possibilità di portare fisicamente l’opera al di fuori dello spazio che le è stato designato; in modo virtuale oppure in maniera reale, alcuni lavori comportano una passeggiata per il quartiere. L’opera di Yoko Ono rappresenta una sorta di chiusura immaginaria di Take Me (I’m Yours), anche se è il primo intervento che si incontra. Wish Tree invita a lasciare un messaggio. Ma il vero incipit della mostra, all’interno dello Shed, è una performance ideata da Pierre Huyghe, dal titolo Name announced, ed è costituita da un signore distinto che annuncia il nome dei visitatori all’interno della mostra, come se fosse l’ospite atteso.

Take Me (I’m Yours). Exhibition view at Pirelli HangarBicocca, Milano 2017. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Photo Lorenzo Palmieri

Take Me (I’m Yours). Exhibition view at Pirelli HangarBicocca, Milano 2017. Courtesy Pirelli HangarBicocca, Milano. Photo Lorenzo Palmieri

Quale tematica viene valorizzata nei gesti di dare-avere della mostra?
All’inizio il corpo è al centro della poetica del dare-avere, a partire dal ritrattista di Vezzoli, che aggiunge una lacrima rossa ai volti degli spettatori, per arrivare alla macchina fotocopiatrice, alla xerox di Félix González-Torres, grazie alla quale si può, nuovamente, fare un ritratto di una parte di sé. Comunque l’idea di riuscire a prendere un’opera d’arte potrebbe sembrare preponderante, ma spesso, senza accorgercene, all’interno del percorso si lasciano frammenti di ognuno di noi, come succede per le tracce sul pavimento di Riccardo Paratore, oppure per gli oggetti richiesti da Alison Knowles. Mentre ci sono molti lavori all’interno dei quali prendere oppure lasciare diventa lo stesso gesto, ma si trasforma in un rito immateriale, un’esperienza, come succede per Tino Sehgal.

Che cosa è diventata Take Me (I’m Yours) a Milano?
Dopo molti passaggi, riteniamo che non sia solo una risposta a una paura di feticizzazione dell’opera d’arte, oppure a una sua temuta disseminazione, oppure alla completa dissoluzione di essa, ma riteniamo sia diventata così come è stata pensata, comprensiva di tutti i lavori all’interno, un’opera d’arte. Nella sua globalità.
Ovviamente oggi si può dare sfoggio di una parte virtuale che sarebbe stata tecnicamente impensabile nel 1995, come il click che lasci sul computer, imprigionato da Ho Rui An, senza dimenticare tutti i lavori che si possono modificare da casa. Inoltre ci sono stati artisti come Vaccari che hanno modificato la tecnologia usata originariamente per produrre l’opera, mettendo in atto lo stesso processo, ma, ad esempio, attraverso Instagram.

E intanto per accedere a Take Me (I’m Yours), fino al 14 gennaio, occorre prenotare e trovarsi nella sala espositiva non superando le settanta persone, con il rischio, altrimenti, di dover aspettare fino all’ultimo ingresso consentito.

Ginevra Bria

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Ginevra Bria

Ginevra Bria

Ginevra Bria è critico d’arte e curatore di Isisuf – Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo di Milano. È specializzata in arte contemporanea latinoamericana.

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