A che cosa serve l’arte contemporanea, oggi?
L’arte contemporanea ha barattato il proprio potere trasformativo con un approccio mercantile. E allora, a che cosa non stiamo assistendo? A un’arte e a una cultura che si assumono il compito di dissolvere il gioco crudele delle opposte tifoserie e di introdurre gli anticorpi necessari

In fondo, questa è la domanda più urgente: a che cosa serve l’arte contemporanea, oggi? E se ci pensiamo bene lo era anche prima (negli anni scorsi, nei decenni scorsi), lo è sempre stata: solo che preferivamo non considerarlo. Era più comodo, per l’arte e per il sistema dell’arte, escludere e/o rimuovere la “politica” dall’equazione – riammettendola solo nel caso delle “opere politiche”. La politica, dopo gli Anni Ottanta e la “fine della Storia” e con l’avvento dell’era della globalizzazione (oggi ufficialmente conclusa, mi pare), è stata per lungo tempo per artisti curatori collezionisti galleristi e persino critici – con le eccezioni del caso – qualcosa da tenere a debita distanza; qualcosa che faceva abbastanza a pugni con il cinismo e l’individualismo (la politica infatti ha a che fare non con l’io ma con il noi, con la società, con la comunità; e anche l’economia, del resto…) così di moda in quegli anni sfolgoranti e provocatori.
L’arte contemporanea è un genere a sé stante?
Meglio, molto meglio concentrarsi su questo villaggio di gente ben vestita e in carriera che viaggiava in aereo da un continente all’altro, da un hotel all’altro, da una biennale all’altra, e riflettere sul tema possibile della prossima megacollettiva… Mi spiego meglio.
La progressiva deresponsabilizzazione dell’arte si è tradotta, nell’arco degli ultimi trenta-quarant’anni, in un approccio piuttosto ‘decorativo’ alle principali questioni economiche, geopolitiche e sociali della nostra epoca. L’arte contemporanea, nel divenire un “genere” a sé stante (come aveva sottolineato già venticinque anni fa Natalie Heinich), governato da sue logiche interne ed espressione di un sistema sempre più elitario (che non a caso, come nelle migliori giravolte del nostro tempo, ha spesso amato presentarsi come “inclusivo”), ha barattato il proprio potere trasformativo con un approccio mercantile che nella migliore delle ipotesi propugna l’indifferenza e la distanza rispetto ai temi considerati “scomodi”.

Arte e mercato dell’arte
Anche il mercato infatti, come la guerra, insieme al profitto di solito segue la legge del più forte. Il contesto che abbiamo alle spalle rappresenta il retroterra di ciò a cui si sta assistendo (o di ciò a cui non si sta assistendo) in questi giorni: il postmodernismo (o meglio, una specifica versione del postmodernismo, e non esattamente quella più progressista), il suo relativismo e la sua sfiducia nei confronti della verità, l’indifferenza come cifra di distinzione e di sofisticazione. Quando poi, a partire dal Covid (che sempre più, a cinque anni di distanza, si presenta come un discrimine, una cesura epocale), la realtà ha presentato il conto – la famosa Storia che doveva essere finita con il crollo del muro di Berlino, e che invece è ripartita nel XXI Secolo seguendo solchi atroci che sembravano svaniti – tutto ciò che l’arte per ora sembra aver fatto è stato sbatterci contro i denti e rinchiudersi nella formula olimpica, perfetta per le anime belle, della denuncia-senza-conseguenze (vale a dire: senza compiere azioni conseguenti).
L’arte genera anticorpi?
E allora, a che cosa non stiamo assistendo? A un’arte e a una cultura che si assumono il compito, come accaduto in altre epoche, di dissolvere il gioco crudele delle opposte tifoserie e di introdurre, con i propri strumenti e con le proprie modalità, gli anticorpi necessari. Se infatti tutta quest’arte colta e sofisticata e fatta in modo professionale non ci fa riflettere per bene e in maniera logica (consequenziale, appunto) su tutto ciò che ci mostruoso e folle sta accadendo nel mondo, sulle motivazioni e sulle conseguenze non solo a breve ma anche e soprattutto a lungo termine, se cioè non ci permette di pensare a lungo termine, di qui a venti-trenta-cinquant’anni, di valutare impatti e relazioni tra dimensioni, territori, settori anche lontani, ma allora a che cosa serve esattamente?
Arte, collettività e comunità
Se non serve a farti considerare, come individuo e come membro di una comunità, ciò che sta accadendo e a farti prendere posizione in merito, a che serve l’arte oggi? A essere scambiata all’interno di una fiera di lusso in una città pulita ma noiosa, per poi essere appesa sul muro di una casa di lusso o rinchiusa a tempo indeterminato in un freeport di lusso, per poi essere rivenduta in un’altra fiera di lusso oppure al proprietario di un’altra casa di lusso sul cui muro essere nuovamente appesa?
Potrebbe saltare fuori (dico solo potrebbe, eh) che tutti quegli anni di biennali e grandi mostre, di grandi sforzi curatoriali e inaugurazioni e aperitivi e cene ed entusiasmi e pubbliche e indubbiamente anche di sacrifici – beh, che siano andati tutto sommato sprecati.
Christian Caliandro
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