I bianchi sono nel panico. Intervista alla grande artista Candice Breitz 

Alcune persone bianche si sentono oggi sotto attacco e oggetto di razzismo da parte delle persone di colore, non bianche. Una videoinstallazione a Roma, presentata per la prima volta in Italia, decostruisce la whiteness, l’essere bianchi, e il privilegio che porta con sé. Ne abbiamo parlato con l’artista che l’ha ideata

È tra gli artisti internazionali più in vista del momento Candice Breitz (Johannesburg, 1972) recentemente assurta alle cronache del dibattito internazionale per la sua ferma presa di posizione contro gli incessanti bombardamenti israeliani su Gaza in risposta agli eventi del 7 ottobre 2023. Ma l’azione critica della Breitz era cominciata molto prima, già con l’affaire documenta (di cui Artribune ha parlato ampiamente qui) e in generale con la sua arte, che ha nel suo background familiare ed emotivo l’esperienza dell’apartheid in Sudafrica, affrontando da sempre tematiche legate alla questione di razza, di genere e alla vita delle persone
Nell’ambito della mostra Riverberi (dal 20 giugno al 28 luglio), promosso da Azienda Speciale Palaexpo e da Spazio Griot aRoma, e curato da Spazio Griot (Johanne Affricot ed Eric Otieno Sumba), che ha reso centrale in Italia nelle visual arts la necessità di creare un dibattito reale su questioni legate alla razza, alla supremazia bianca e alla colonizzazione, l’artista residente a Berlino presenta per la prima volta in Italia la video installazione Whiteface al Mattatoio di Roma. Il progetto prosegue con Ligia Lewis e l’anteprima europea di A Plot A Scandal (3 luglio) e con l’artista portoghese-angolana Mónica de Miranda,che co-rappresenta il Padiglione Portogallo della Biennale di Venezia 2024con Path To The Stars, dal 17 al 28 luglio. Breitz ce ne parla in questa intervista.

In occasione della mostra Riverberi a cura di Johanne Affricot ed Eric Otieno Sumba presenti per la prima volta in Italia l’opera Whiteface. Cosa racconta? Come hai lavorato?
Whiteface è una videoinstallazione a due canali e affronta il tema di come la condizione di whiteness, dell’essere bianchi, può essere resa tangibile ed esaminata. Le conversazioni sulla razza hanno troppo spesso dato per scontato che chi si identifica come bianco non abbia un’identità razziale. Sono solo “gli altri” a portare con sé l’esperienza della razza. Il tema della whiteness come esperienza razzializzata, quindi, troppo spesso resta indiscusso e invisibile. Molte persone hanno osservato che il fulcro nodale di molte delle relazioni di potere e delle iniquità avvengono perché la maggior parte delle persone bianche non pensano a loro stesse in quanto razza, non percependo di avere una identità razziale. Ovviamente non sono interessata al colore della pelle in quanto tale, ma alle categorie artificiali che vengono utilizzate per creare un’idea costruita e astratta di razza e che, nonostante ciò, purtroppo continua ad impattare a livello politico e sociale la vita delle persone. Per me è importante ragionare sulla psicologia della whiteness e sul ruolo che essa ha nella società suprematista bianca, intesa non come una questione di individui ma in quanto problema sistemico. Ho quindi deciso che avrei provato a creare un ritratto della whiteness nel suo attuale stato di panico.

Panico?
Troppe persone bianche, in questo momento, stanno finalmente e per la prima volta realizzando – anche grazie alla crescente presenza nel mondo di movimenti antirazzisti – che sono bianche e che godono di una serie di privilegi e poteri che derivano dalla propria condizione di membri di una cultura dominante. Sicuramente i movimenti antirazzisti esistono da molto tempo, ma penso che negli ultimi dieci anni ci sia stata una maggiore consapevolezza e la presenza di un movimento come Black Lives Matter è la dimostrazione di come esista una sempre più forte pressione contro la società suprematista bianca, che sta subendo un contraccolpo, ponendosi in una posizione difensiva. Le persone bianche si sentono sotto attacco, percepiscono addirittura di essere oggetto di razzismo da parte delle persone di colore, che non possono dire più nulla, e hanno paura di perdere i propri privilegi, di perdere cioè il controllo, in una sorta di illusione paranoica.

Candice Breitz Whiteface Kunshalle Baden Baden
Candice Breitz, Whiteface, Kunsthalle Baden Baden

Il titolo Whiteface richiama la triste pratica performativa della blackface…
Certo. Sono partita da questa infausta tradizione teatrale della blackface (letteralmente “faccia nera”, stile di trucco teatrale utilizzato nel XIX secolo, e purtroppo ancora nel passato recente, per rappresentare una versione stereotipata delle persone nere, ndr) che disumanizza e minimizza le persone nere, togliendo loro dignità. Ho dunque invertito questa violenta tradizione razzista, mettendo al centro la “faccia bianca”, e spostando dunque la percezione, ponendo il punto di vista al contrario e le persone bianche come soggetto di un processo di razzializzazione. A partire da questa pratica totalmente da sradicare mi sono chiesta cosa sarebbe successo se avessimo provato a decostruire l’identità razziale bianca, portando il processo agli estremi.

È anche un problema di linguaggio?
Senza dubbio. La maggior parte delle persone bianche pensano di non essere parte del problema, di essere brave persone e non avere nulla a che fare con tutto questo, ma molto spesso invece il nostro linguaggio rivela comportamenti e pensieri razzisti. Persino molte frasi che sembrano innocenti, come “alcuni dei miei migliori amici sono neri”, in realtà rivelano una sorta di naïveté rispetto alla questione. La cosa per me fondamentale era far capire che il tema non riguarda solo sacche ovvie di razzismo come le ideologie neonaziste, ma volevo guardare all’intero spettro dell’essere bianchi, compreso chi, tra noi persone bianche, pensa di essere riuscito a superare il proprio razzismo. Ecco perché mi sono auto inclusa in questa disamina interpretando io stessa il ruolo all’interno della videoinstallazione. Se avessi affidato la parte a un’altra persona bianca avrei in qualche modo preso le distanze dal problema, escludendomi ed autoassolvendomi, assumendo una posizione dall’alto.

E i media?
Bisogna riflettere, ad esempio, su come le idee razziste sono propagate attraverso il web. Se cerchi un video razzista su YouTube l’algoritmo ti rimanda a diversi video analoghi in una sorta di effetto a matriosca. La disponibilità sul web offre una amplificazione a questi messaggi violenti in qualche modo istituzionalizzandoli e normalizzandoli, fino a fargli avere una risonanza tale da validare idee anti-migranti, anti rifugiati e movimenti politici populisti e di estrema destra.

Cosa significa per te presentare un progetto come Whiteface in un paese come l’Italia? Che idea ti sei fatta della percezione del corpo nero e del linguaggio utilizzato nel nostro paese nella gestione delle relazioni di potere?
Non ho trascorso abbastanza tempo in Italia da avere una opinione approfondita, ma posso dire che qualsiasi Paese che vota qualcuno come Giorgia Meloni come proprio leader politico è una società che chiaramente non è riuscita a superare una mentalità razzista.

Candice Breitz - Never Ending Stories
Candice Breitz – Never Ending Stories

Dopo le note vicende dello scorso inverno legate a documenta, con le dimissioni in blocco del comitato che stava selezionando il prossimo direttore artistico, ti sei vista improvvisamente cancellare la mostra in programma nel 2024 presso il museo di Saarland, a seguito di tue dichiarazioni e prese di posizione politica (ne ha scritto Masha Gessen nel suo importante pezzo, In the Shadow of the Holocaust, pubblicato a dicembre 2023 sul “New Yorker”). Ce ne vuoi parlare?
Questa storia è intimamente connessa al tema su cui Whiteface ci vuole far riflettere. Penso che ci sia nel mondo Occidentale, a partire dallo scorso 7 ottobre, una crescente ansia che l’antisemitismo stia proliferando. Certamente l’antisemitismo è ancora un problema reale in Europa, come nel resto del mondo. Ciò che mi disturba è che il discorso intorno all’antisemitismo sia stato usato come uno strumento per infiammare l’islamofobia. I politici di destra strumentalizzano sempre più la lotta all’antisemitismo per stigmatizzare gli arabi e/o i musulmani, sostenendo in genere che le loro politiche sono volte ad aumentare la sicurezza degli ebrei. Sempre più spesso l’antisemitismo e la critica al governo israeliano vengono trattati come un tutt’uno. Nessuno che critichi la Meloni e il suo governo, ad esempio, verrebbe immediatamente accusato di essere “anti-italiano”, ma è comune che chi critica Netanyahu e il suo governo di estrema destra venga etichettato come “anti-israeliano”, il che viene automaticamente e assurdamente tradotto in antisemita.

Certo per un’artista impegnata contro ogni forma di razzismo e ineguaglianza sociale e di genere come te dover affrontare una discussione del genere deve essere stato doloroso…
Come ebrea che ha criticato Netanyahu e i suoi compari di destra, politici che sposano abitualmente la retorica genocida, c’è qualcosa di profondamente inquietante nell’essere accusati di essere antisemiti dai figli e dai nipoti dei nazisti, dai nipoti e dai figli di coloro che hanno massacrato sei milioni di miei antenati e molti altri. Ci sono infatti numerose prove che suggeriscono che è perfettamente possibile essere sia pro-Israele che antisemita. Prendiamo ad esempio leader come Trump o Orban che, date le loro posizioni etnonazionaliste, sembrano quasi invidiosi della capacità di Israele di privilegiare alcuni cittadini rispetto ad altri, ma che tuttavia difficilmente potrebbero essere descritti come alleati del popolo ebraico in generale.  La cosa ridicola è che in Germania oltre l’80% degli incidenti legati all’antisemitismo sono causati da persone tedesche bianche. Ma la narrazione portata avanti dai media e della politica è quella di un paese che è andato avanti rispetto a questi problemi e che addirittura ci sia un “antisemitismo di importazione”, dovuto a persone straniere, rifugiate, arabe e i musulmani o ebree progressiste. 

A che punto è l’affaire documenta? Secondo te la manifestazione tedesca potrà riprendersi dalle conseguenze dirette e indirette di ciò che è accaduto lo scorso inverno
Con l’ultima edizione, documenta ha chiarito che la Germania ha poca tolleranza per prospettive globali diverse dalla propria e insiste nel proiettare il proprio trauma storico su artisti e curatori del resto del mondo. Non credo sia una coincidenza che nel momento in cui documenta ha davvero coinvolto artisti e proposto visioni del Sud globale e la curatela è stata affidata a un collettivo proveniente da un Paese musulmano, la classe politica tedesca e la stampa mainstream abbiano avuto una reazione quasi allergica a questa mostra. Documenta è stata uno strumento geopolitico attraverso il quale la Germania ha dimostrato la sua apertura al resto del mondo. Se la Germania non è all’altezza di queste affermazioni, forse oggi non merita di ospitare una mostra come documenta. 

Che ruolo e che funzione hanno in questo momento storico, secondo te, l’artista e l’opera d’arte?
L’arte in generale continua a offrire uno spazio interessante in cui immaginare altre possibili realtà, in cui sognare un mondo migliore. Continuo a credere nel potere della cultura di cambiare il modo in cui guardiamo il mondo e di contribuire gradualmente nel tempo alla trasformazione sociale e politica; tuttavia, le prese di posizione e le proposte politiche fatte nell’ambito della cultura non saranno mai sufficienti. Dobbiamo essere attivi nella sfera pubblica come cittadini, ben oltre i limiti della pratica culturale, se vogliamo veramente impegnarci per un futuro più equo e giusto.

Santa Nastro

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Santa Nastro

Santa Nastro

Santa Nastro è nata a Napoli nel 1981. Laureata in Storia dell'Arte presso l'Università di Bologna con una tesi su Francesco Arcangeli, è critico d'arte, giornalista e comunicatore. Attualmente è vicedirettore di Artribune. È Responsabile della Comunicazione di FMAV Fondazione…

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