Melancolia della resistenza. Béla Tarr e Adrian Paci in mostra a Casa Masaccio 

A San Giovanni in Valdarno, un ottimo dialogo a distanza ravvicinata tra uno dei massimi esponenti del cinema contemporaneo ed il prestigioso artista multimediale di origine albanese

La quarta edizione di Esporre il Cinema, il ciclo di mostre di Casa Masaccio-Centro per l’arte contemporanea legato al Premio Marco Melani, storico collaboratore di Enrico Ghezzi e programmatore di Fuoriorario nato a San Giovanni in Valdarno, quest’anno matura la proposta espositiva con un confronto, ben oltre il suggestivo, tra il regista Béla Tarr (Pécs, 1955) e l’artista Adrian Paci (Scutari, 1969). Melancolia della resistenza: BÉLA TARR / ADRIAN PACI, curata da Saretto Cincinelli, tocca nel profondo la natura semantica delle rispettive ricerche artistiche dei due autori interpellati, proponendo singolari parallelismi e ponendo non poche riflessioni sulle caratteristiche di ciascun lavoro. 

La mostra Melancolia della resistenza a Casa Masaccio 

Costruita sfruttando la verticalità del palazzo che fu casa natale del pittore Masaccio, la mostra sviluppa un crescendo/decrescendo che porta dal buio dell’ingresso al buio della mansarda, nel mezzo di un dialogo a distanza ravvicinata tra una delle iconiche carrellate in longtake del regista ungherese (nello specifico, tratta dal film Perdizione del 1988) e una serie di lavori in diversi media dell’artista albanese, con installazione video, dipinti e un’azzeccata serie di acqueforti su cui è d’obbligo soffermarsi più avanti. 

L’incontro tra Béla Tarr e Adrian Paci a San Giovanni in Valdarno 

Fin dal primo approccio, un video di una dozzina di minuti che riunisce Prologo (2004) di Béla Tarr e Centro di permanenza temporanea (2007) di Adrian Paci, si intuisce quanto i due autori condividano simili tematiche sociopolitiche incarnate nei volti veristi e assenti dei vari personaggi interpreti delle distinte poetiche visive: migranti, homeless, disoccupati, anziani. D’altronde, la comunanza fisiognomica è solo l’aspetto più appariscente della mostra, incentrata a cogliere le cifre salienti del lavoro di entrambi i protagonisti, ovvero il tempo e la decostruzione narrativa. Il curatore Cincinelli auspica (riuscendovi) di realizzare un complesso ricettivo che svela soprattutto le dinamiche della cinematografia di Tarr, pure applicabili senza forzatura (ed è questa una rilettura accattivante) all’arte del Paci. Contestualmente, entrambe le ricerche sviluppano una dialettica tesa tra l’equilibrio e il caos, dove il tempo amplificato è la naturale conseguenza di questa lotta continua, o meglio, di questa resistenza

Il cinema scultoreo di Béla Tarr 

Il fine di Béla Tarr è liberare il cinema da sé stesso: i padri inetti che popolano la filmografia di Tarr (da Nido Familiare, 1979 a Il cavallo di Torino, 2011) rivelano il tentativo del regista di liberare lo sguardo da una visione condizionata e l’arte stessa da certi accademismi che la inibiscono. La schiettezza descrittiva di una realtà stagnante e impotente cela un senso di ribellione e acutezza critica che ribollono sotto il coperchio di un’apparente stabilità, pronta a saltare in qualsiasi momento. Deflagrazione che non avverrà mai. Il cinema di Tarr è scultoreo, è la potenza trattenuta da un presente immanente. 

La reiterazione nelle opere di Adrian Paci 

Pure, l’idea plastica di Adrian Paci avviene introiettando la dinamicità temporale verso il suo annullamento, creando l’illusione della simultaneità (The Wanderers, 2021) oppure il vuoto della reiterazione (She, 2008). “Il nulla infinito dell’opera coincide con le potenzialità di ogni possibile esistenza” così si descriveva nel 1915 il Quadrato Nero di Kazimir Malevič: se dunque i film di Tarr un qualcosa che è in atto con la propria potenza, le opere di Paci fissano la conciliazione tra contrari con espedienti de-narrativi. Ciò avviene nelle pitture tratte da frames di video amatoriali o film d’autore (da Pasolini allo stesso Béla Tarr), ma soprattutto nella serie di acqueforti chiamata She, dove la medesima scena rappresentata, con un volto in ombra di una donna anziana in primo piano sullo sfondo di un’allegra atmosfera da taverna, viene riproposta in più esemplari ma con minime e decisive variazioni. Questi “slittamenti” non solo disperdono l’origine della produzione, perfino decostruiscono il senso narrativo della scena, come se ogni immagine scaturisse un nuovo inizio.  

La decostruzione narrativa di Adrian Paci e Béla Tarr a Casa Masaccio 

L’uso di una tecnica così vicina alla storia del cinema, sia sul piano metodologico che di linguaggio (basti ricordare il saggio del 1946-47 del regista e teorico russo Sergej M. Ejzenštejn Piranesi o la fluidità delle forme) inquadra perfettamente la portata di Melancolia della Resistenza, titolo, tra l’altro, ripreso da un romanzo di László Krasznahorkai, da cui il regista magiaro trae il suo Le armonie di Werckmeister (2000) di cui Krasznahorkai cura anche la sceneggiatura. Proprio come Adrian Paci, anche Béla Tarr applica una decostruzione narrativa nelle sue pellicole, pur utilizzando gli strumenti propri del medium cinematografico, rimanendo fedele al linguaggio, così che la mostra di Casa Masaccio scaturisce una serie di parallelismi genuini e affascinanti; puntualizzando, la reiterazione delle grafiche di She si contrappongono alla ripetizione incessante e circolare della teleferica osservata dalla finestra del protagonista di Perdizione, ancora la simultaneità di The Wanderers risulta speculare a quella di due proiezioni nell’ultima sala del Centro, della misera storia della bambina Estike, tratta da Satantango. Quello che emerge è il dominio della visione, acronica e pungente, e quasi sacralizzata nella sua agghiacciante purezza. L’umanità di Adrian Paci e Béla Tarr pare spacciata e in balìa degli eventi, eppure insiste inesorabilmente ad attendere un’imperscrutabile fine, mossa, più che da speranza e forza di volontà, da una granitica inerzia e affezione al fallimento. Tra “accettazione” e “rassegnazione” cambia solo il punto di vista. 
 
Luca Sposato 

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