La Biennale di Venezia è un invito a lasciarsi andare

Punta sull’intelligenza emotiva più che su quella razionale la Biennale di Venezia diretta da Cecilia Alemani. E invita a “dimenticarsi” di ciò che si pensa di sapere. È questa l’opinione di Giulio Ciavoliello

Ho ripensato alla Biennale di quest’anno e, riflettendo su come è stata vissuta dagli addetti ai lavori che la visitavano alla preview, sono arrivato a delle conclusioni.
Per arrivare ai nodi della questione semplifico un po’.
Le biennali (non solo di Venezia), Documenta e molte mostre, con i lavori che presentavano, ci hanno abituato a pensare che ciò che ha un peso notevole è quanto si trova al di là dell’immediatezza della manifestazione visiva, che può arrivare a sparire del tutto. Si può ritenere che a quella che si può chiamare analiticità dell’artista, costituita dai motivi concettuali che hanno condotto a una formalizzazione, corrisponde l’analiticità della ricezione, la necessità di rallentare, di soffermarsi con attenzione sulle ragioni dell’opera per comprenderla. Ovvio, molta arte non solo recente, da almeno cento anni a questa parte, ha un carattere spiccatamente intellettuale.
Si può affermare che in tutti noi, volenti o nolenti, agisce lo schema modernismo ‒antimodernismo – postmodernismo, che si ritrova nel sottotitolo di una storia dell’arte di riferimento negli ultimi anni (Arte dal 1900. Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo di Foster, Krauss, Bois, Buchloh, Joselit, II edizione, 2013, Zanichelli).
La Biennale di Venezia di quest’anno rientra poco in questa logica.

Simone Leigh alla biennale arte 2022 latte dei sogni corderie ph. irene fanizza

Simone Leigh alla biennale arte 2022 latte dei sogni corderie ph. irene fanizza

LA BIENNALE DI CECILIA ALEMANI

Nella proposta della curatrice Cecilia Alemani vi sono riferimenti a elementi che si trovano dentro e fuori dalle dinamiche dell’avanguardia. Il titolo è mutuato da una surrealista irregolare come Leonora Carrington e gli approfondimenti nelle “capsule” della mostra inducono a soffermarci su aspetti particolari. Questo è possibile grazie a un sapere sistematico che ci accompagna da tempo.
Ma considerando la maggior parte de Il latte dei sogni, il percorso principale del padiglione centrale ai Giardini e soprattutto all’Arsenale, è come se richiedesse al visitatore di lasciarsi andare, di mettere da parte il criterio di chi la sa lunga, che siamo portati ad applicare, per cui molto ci appare naïf o suggestionato da motivi novecenteschi per lo più attinenti al surreale e all’informe.
È meglio se il pubblico colto dell’arte contemporanea si abbandona a una fruizione alla quale eravamo disabituati. Gli schemi di cui di solito ci avvaliamo possono sono inutili, se non fuorvianti. Il visitatore deve far leva su un’intelligenza emotiva più che razionale. Forse l’ultima volta che è avvenuta qualcosa di analogo è stato all’inizio degli Anni Ottanta. Anche allora aveva preso il sopravvento un’arte forte nell’impatto percettivo, per lo più pittorica, con un’evidenza spettacolare che non richiedeva particolare mediazione intellettuale.
Allora veniva in aiuto come chiave la presa d’atto post-moderna ma oggi, più che la consapevolezza del dopo, ci aiuta un’ammissione di alterità, sostenuta, più rilevante rispetto ad aperture che pure sono già avvenute. Un’ammissione di espressioni estranee all’Occidente, ai suoi grandi centri, ai poteri dominanti, fondate su elementi basici quali materia, forma, colore, provenienti da zone dove non si ragiona con la nostra visione della storia, con la nostra evoluzione degli stili, dove le consapevolezze sono altre.

biennale arte 2022 latte dei sogni padiglione centrale ph. irene fanizza

biennale arte 2022 latte dei sogni padiglione centrale ph. irene fanizza

LA BIENNALE DELLA PANDEMIA

Vi è un ulteriore elemento da considerare. Le scelte della curatrice sono avvenute a priori, ma credo che anche lavorare a distanza in tempo di pandemia abbia contribuito a fare assumere alla mostra la sua configurazione. Paradossalmente, la necessità di comunicare, di incontrarsi attraverso schermi, ha trovato sfogo in un suo opposto e ha fatto sì che la mostra prendesse una forma per cui la fisicità conta più di prima, dove la percezione visiva non si avvale di mediazione, piegata all’evidenza di sensibilità e di modi di espressione fino a oggi ricondotti all’universo femminile.
Così succede che alle Corderie non ci si meraviglia della scultura creola di Simone Leigh, dei dipinti di Portia Zvavahera, dei manufatti di Violeta Parra e, per certi versi, non ci si aspetta un’opera come quella di Barbara Kruger. La sua installazione ambientale, peraltro ben riuscita, avvolgente, è come se ci riportasse dentro un alveo di cultura occidentale.

Giulio Ciavoliello

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Giulio Ciavoliello

Giulio Ciavoliello

Giulio Ciavoliello scrive di arte contemporanea e ha curato mostre. Ha fondato e diretto Artshow, guida a mostre e musei (1986­2011), ha fondato e diretto Combo, rivista d'arte contemporanea (2007­2008). Ha pubblicato “Dagli '80 in poi. Il mondo dell'arte contemporanea…

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