La cultura d’Europa. Editoriale di Bruno Racine

Il direttore di Palazzo Grassi-Punta della Dogana a Venezia riflette sul ruolo della cultura nell'Unione Europea. Al di là dei facili populismi e sovranismi.

C’è una frase che viene citata spesso, attribuita a Jean Monnet, a proposito della costruzione dell’Europa: “Se fosse da rifare, io ripartirei dalla cultura”. Anche se apocrifa, la citazione riflette sia una frustrazione reale, sia un’aspirazione ancora più potente. Ci ripensavo ascoltando un’intervista a Luca Massimo Barbero, curatore e direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini di Venezia, a proposito della notevole mostra che il Centre Pompidou Metz ha dedicato a Yves Klein. Piuttosto che insistere sul legame che l’artista ha tessuto con altri protagonisti della scena artistica francese, la mostra poneva l’accento sul ruolo che hanno avuto il Giappone e ancor più la città di Milano nel percorso artistico del pittore. Il capoluogo lombardo, infatti, ha rappresentato una delle piattaforme più fertili per l’avanguardia europea negli Anni Sessanta, offrendo così una risposta originale e prolifica alle ricerche che nello stesso periodo avevano avuto origine negli Stati Uniti; che la galleria Apollinaire sia stata a Milano, sotto l’impulso di Pierre Restany, il luogo di nascita dei Nouveaux réalistes è un fatto troppo spesso trascurato se non addirittura ignorato.

UNA CARTOGRAFIA CULTURALE

Abbiamo dunque bisogno di conoscere questa cartografia culturale dell’Europa per prendere atto e coscienza di cosa è esattamente la cultura europea. Non un “melting pot”, ma una rete in perenne evoluzione in cui emergono centri di creazione più o meno longevi e che intrattengono tra loro un dialogo più o meno sostanziale, veri e propri punti di incontro.
Le persone della mia generazione ricordano ancora con meraviglia le grandi esposizioni inaugurali del Centre Pompidou di Parigi alla fine degli Anni Settanta volute dal più cosmopolita degli svedesi, Pontus Hultén, e divenute leggendarie: Paris-Berlin, Paris-Moscow o Paris-New York; mostre che facevano prendere coscienza ai francesi del fatto che, se il ruolo storico di Parigi era fondamentale nella prima metà del XX secolo, nello stesso periodo esisteva anche una geografia della produzione artistica molto più vasta, dinamica e diversificata, che non si sarebbero mai immaginati. Un tale lavoro di decentramento è paradossalmente indispensabile per comprendere, dal punto di vista culturale, il significato dell’espressione “l’unione dell’Europa nelle sue differenze”, che rischierebbe altrimenti di essere solo uno slogan vuoto.

Abbiamo dunque bisogno di conoscere questa cartografia culturale dell’Europa per prendere atto e coscienza di cosa è esattamente la cultura europea. Non un ‘melting pot’, ma una rete in perenne evoluzione”.

Il momento di angoscia che stiamo vivendo rispetto al futuro spinge un numero crescente di europei a volersi difendere dietro barriere illusorie: questo sarebbe un tema importante da affrontare da parte dei grandi musei europei per riflettere e mettere in luce questa cartografia dalla metà del secolo, sottolineando non solo ciò che è riuscito a imporsi su un panorama internazionale dominato dagli Stati Uniti, ma anche ciò che è stato ignorato, o ancora ciò che è riuscito a resistere e si è fatto conoscere seppur in un ambito ristretto. Questa necessità di mettere in prospettiva è senza dubbio il segno di un’epoca che vede i propri punti di riferimento confondersi ed è significativo che la Biennale di Venezia, l’anno in cui la pandemia l’ha costretta ad annullare l’edizione 2020 dedicata all’Architettura, abbia scelto di esporre la propria storia attraverso i propri Archivi, dove anche qui emerge un ampliamento della scena artistica mondiale che oltrepassa sempre più il mondo occidentale. La riflessività, che a volte può prendere la forma di una cattiva coscienza, non è forse il marchio di fabbrica dell’Europa?

Bruno Racine

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #23

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