Comunicare Pompei: dal thermopolium allo street food

Le polemiche nate in seguito al paragone fra lo street food e il thermopolium scoperto a Pompei stanno eclissando la straordinarietà di questo ritrovamento e delle sue implicazioni. Ma perché ci si scandalizza così tanto quando viene usato un registro linguistico che facilita l’avvicinamento alla cultura di un pubblico più ampio? Le riflessioni di Massimiliano Zane.

Meraviglia a Pompei, ormai lo sappiamo tutti. Chi in questi giorni non ha visto le anatre appese, o il galletto finemente decorato campeggiare sul fondo giallo del bancone del thermopolium di cui tutti parlano? Già, perché d’improvviso Pompei è tornata al centro dell’attenzione sia del mondo della cultura che della comunicazione di massa dei media: gli scavi e gli archeologi ci hanno fatto “dono” nei giorni scorsi di un qualcosa di straordinario, che ha fatto spalancare gli occhi al mondo, risultato di anni di scavi, ennesima tappa di un percorso di studio che il “Grande progetto Pompei” ha reso possibile. Una cosa eccezionale, e lo è sia quanto emerso dalla terra (o meglio “dai flussi piroplastici”), quanto il lavoro svolto che ha portato a questo punto. Un lavoro di cui andar fieri e orgogliosi, da celebrare. Eppure qualcosa è andato storto: la “scoperta” (che in effetti scoperta poi non è in quanto il ritrovamento è dello scorso anno) nel giro di breve tempo è passata quasi in secondo piano rispetto un ricco corollario di “baruffe” legato al modo in cui è stata comunicata. Fin da subito, fin dai primi annunci e poi col passare dei servizi di giornali e televisioni, social e post vari, diverse “fazioni” interne al mondo della cultura si sono scatenate le une contro le altre sull’uso e abuso del termine per indicare quanto “ritrovato” tra i vicoli di Pompei: thermopolium VS “banco di street food di 2000 anni fa”.

THERMOPOLIUM VS STREET FOOD

E questa diatriba terminologica ha fatto passare in secondo piano la notizia: grazie a questo recupero, e grazie all’antropologia e alla bioarcheologia, si potrà sapere di più sul viver quotidiano dei pompeiani, sul cibo, sulla loro dieta, sulle loro abitudini alimentari, sulla loro vita. Ecco la notizia, che è (sarebbe) anche il punto su cui servirebbe concentrarsi e da cui iniziare per far passare questo messaggio. Perché se il ritrovamento è importante, e proprio perché è così importante, occorre comunicarlo adeguatamente. Allora la questione ora è: cos’è che si intende per “adeguato”?
Per capire questo dobbiamo capire quali sono gli obiettivi e le finalità di questo scavo (e in generale dei progetti culturali). In questo senso abbiamo l’obiettivo primo, la ragion d’essere stessa nello scavo: la tutela, quindi la ricerca, archeologica e scientifica, la catalogazione, la salvaguardia degli affreschi e così via. E se questo è l’obiettivo primo il secondo è la finalità, ovvero la valorizzazione dei ritrovamenti e del lavoro svolto in questo scavo (come nei mille altri). L’una serve a poco senza l’altra. E questa, la valorizzazione, la si ottiene principalmente con la diffusione culturale, rendendo il tutto di cui sopra fruibile (non solo aprendo le porte ai turisti). Occorre cioè mettere a valore tutto ciò che in esso converge in termini tali da coinvolgere, sensibilizzare, toccare il più ampio spettro di persone possibile in modo che l’eccezionalità di quegli scavi venga trasmessa. Perché il punto della questione è questo: Pompei è un mondo “vivo” di meraviglia da conoscere e diffondere, parimenti, da un lato ancora troppo poco conosciuto in termini tecnici, e dall’altro anche troppo conosciuto in termini turistici. Allora, come proprio l’archeologia insegna che il suo il cuore sta nella stratificazione, anche nel comunicarla dobbiamo “stratificare”. E per far questo serve andare oltre un contesto puramente accademico, o un “normale” sensazionalismo, o oltre i titoli e il brand, e far sì che il valore di Pompei, quello “intimo e umano”, venga trasmesso oltre ogni speculazione fuorviante, in un senso e nell’altro, perché  questo non fa bene né all’archeologia né alla divulgazione seria: Pompei è un eccezionale mezzo attraverso cui educare e coinvolgere alla quotidianità della storia e dell’arte, e questo non si può fare sempre e solo con la rigidità stilistica tecnica cui siamo stati abituati per decenni, si ottiene anche raccontando dello “street food” del 79 d.C. E ho detto “anche”: perché una comunicazione non esclude l’altra. Ecco che così ogni polemica sulla bontà o meno dell’uso o meno di contemporaneizzazioni (o semplificazioni, se vogliamo) perde valore in quanto occorre far sì che queste coesistano per portare a termine il nostro fine ultimo: mettere a valore ciò che Pompei è, ovvero una finestra eccezionale sulla nostra storia che tutti devono imparare a conoscere (un po’ anche per conoscersi meglio). Capire e accettare questo è fondamentale. Ovviamente non parlo di lasciarsi andare a eccessi o depauperamenti nell’accuratezza scientifica (cosa che spesso si è vista in passato, spingendo il confine della divulgazione tanto da sfiorare il romanzato), qui parliamo “semplicemente” di narrazione secondo registri comunicativi diversi per “parlare” a pubblici diversi.

Un luogo di cultura è (dovrebbe essere) un luogo piacevole, accogliente, un luogo che per sua stessa natura è chiamato a rimuovere le proprie barriere (sensoriali, fisiche, cognitive ma anche culturali, emotive ed economiche), non a crearne di nuove”.

Perché la dicotomia stretta cui stiamo assistendo verso le varie forme della comunicazione culturale, in questo caso o nel caso del docu-film messo in onda da Rai 2 nei giorni scorsi, ma come in mille altri esempi (penso al caso Ferragni-Uffizi), riporta alla ribalta un tema fondamentale: quello dell’accessibilità dei luoghi della cultura. E non parlo dell’accessibilità fisica o economica, ma di quella cognitiva ed emotiva. Di quella accessibilità che ci fa sentire parte attiva di ciò che stiamo osservando in maniera empatica, viva e vitale, pulsante. Quella accessibilità che spesso è venuta a mancare nella comunicazione culturale, spesso ancora arroccata al suo purismo terminologico e concettale, e che nel tempo, più di altri fattori, ha scavato un solco profondo nell’immaginario “comune”, nel percepire la cultura stessa (e spesso tutto ciò che vi è connesso) come qualcosa dì lontano nello spazio e nel tempo, di superfluo, elitario, distante dalla quotidianità, incidendo gravemente sulla percezione di utilità di luoghi e persone, lauree e professioni gravitanti nell’orbita culturale, e di conseguenza, a cascata, anche sui consumi culturali. Perché innanzitutto un luogo di cultura è (dovrebbe essere) un luogo piacevole, accogliente, un luogo che per sua stessa natura è chiamato a rimuovere le proprie barriere (sensoriali, fisiche, cognitive ma anche culturali, emotive ed economiche), non a crearne di nuove. E in questo senso per essere tale deve essere comprensibile. Arroccamenti proconcettuali, o polemiche interne al mondo della cultura (dotte quanto sterili), oggi come in passato, fanno il bene di chi li fa (forse), sicuramente non alla cultura stessa.

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AVVICINARE ALLA CULTURA UN PUBBLICO PIÙ AMPIO

E allora ben venga anche un docu-film messo in onda in prima serata, scientificamente accurato e con una narrazione equilibrata, ma soprattutto che ha fatto parlare i protagonisti degli scavi, quelli veri: i mille antropologi, vulcanologi, archeologi che finalmente si sono visti, che hanno dato volti e voci a quell’immenso “dietro le quinte” troppo spesso nascosto, a tutto il loro lavoro, la loro dedizione, al di là dei turisti e del mito dell’archeologo alla Indiana Jones, rendendoli per una serata protagonisti veri oltre i vari (e soliti) divulgatori. Perché tra le pieghe di polemiche spicciole ci si è dimenticati anche di questo: che per una serata si è acceso il riflettore su quell’esercito silente che rende possibile tutto il resto. E questa è la notizia di oggi. E se per aver ottenuto questo risultato, altrettanto importante (quasi) come il ritrovamento stesso, si è dovuto utilizzare una narrazione un po’ “semplificata”, più “digeribile”, non capisco quale sia il problema: la comunicazione di un thermopolium avrebbe avuto la stessa capacità di diffusione di quella della bottega di cibo da strada del 79 d.C.? Forse no, e allora non sia scandaloso anche raccontare dello street food di 2000 anni fa in prima serata (ovviamente senza sminuire la scientificità della cosa, o sacrificare i risvolti archeologici) se serve a divulgare meglio concetti che poi potranno essere approfonditi. Dopotutto se lo faceva Veronese che con i suoi dipinti, contemporaneizzando gli episodi biblici trasponendoli nella Venezia cinquecentesca, non possiamo farlo noi oggi?
La comunicazione, la narrazione culturale servono a questo, a creare empatia, ad avvicinare, a incuriosire, a meravigliare, non ad allontanare. Perché l’aver ritrovato quella splendida bottega non significa averla resa nuovamente accessibile. Per fare quello serve ben altro: comunicazione, diffusione e disseminazione adeguate al tempo che stiamo vivendo, innanzitutto. Perché il problema della domanda di consumi culturali inizia dall’offerta, e non viceversa.

Massimiliano Zane

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Massimiliano Zane

Massimiliano Zane

Massimiliano Zane (Venezia, 1979) è progettista culturale, consulente strategico per lo sviluppo e la valorizzazione del patrimonio.

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