I paesaggi di Osvaldo Licini, tra pittura e poesia

A Monte Vidon Corrado i paesaggi di Osvaldo Licini prendono per mano l’infinito. E diventano protagonisti della mostra allestita nello Spazio espositivo Casa Museo e Centro Studi Osvaldo Licini.

A Monte Vidon Corrado, piccolo ma prezioso borgo in provincia di Fermo ‒ proprio nel fermano il paesino è chiamato “lu muntidù” ‒ tra la sempre affascinante Casa Museo e il Centro Studi Osvaldo Licini, dallo scorso 25 luglio è possibile guardare e studiare (in alcuni casi per la prima volta dal vivo, vista anche la difficile reperibilità), in circa centoventi opere tra dipinti e disegni, l’atmosfera paesaggistica che Osvaldo Licini (Monte Vidon Corrado, 1894-1958) – il “solitario” Licini, l’artista “appartato in un paesetto nelle Marche” si legge nella biografia inviata alla mostra nazionale Premio del Fiorino (Firenze, 1950) – è riuscito a trasferire e trasporre e trascendere nel suo lungo, mai pago lavoro: “Adesso guardiamo”, lui e sua moglie Nanny Hellstrom sposata nel 1925 a Parigi, “dalle finestre crescere la primavera e i cambiamenti rapidi del cielo e dei verdi e ci divertiamo come a teatro”, suggerisce l’artista in una lettera del 5 aprile 1932 all’amico Felice Catalini, fratello di quell’Ermenegildo che tanto si è impegnato, con passione democratica e convinzione comunista, sulla “questione meridionale” di Giustino Fortunato.

LA PITTURA DI OSVALDO LICINI

Basta sporgersi da una di quelle finestre ventose della Casa Museo per percepire quale e quanta aderenza ci sia tra le opere realizzate negli anni marchigiani e quella realtà sempre presa per la coda, volutamente appiattita, consumata, portata a una dimensione antivolumetrica (perseguita anche da Matisse), spinta oltre i bordi del vero (“Lavoro dal vero. Quasi sempre”), in un’area ideale dove cielo e terra si confondono per farsi silenzio cristallino e geometrico (una “geometria piana”, più precisamente), apparizione argentina e diafana, ricordo di qualcosa che ritorna, “con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia”, come eterno e dolce. “La sua produzione non è abbondante e, soprattutto, non vistosa, generalmente i quadri sono piccoli, spesso piccolissimi; ma a chi ben guardasse, appariva subito l’intensità poetica che in essa si rivela, un mondo di immagini sgorganti da un fresco genuino fervore di vita spirituale”, annota Palma Bucarelli in un articolo pubblicato su La Sera di Roma il 18 giugno 1958, dove riporta le sue considerazioni sugli italiani premiati alla XXIX edizione della Biennale di Venezia.

Osvaldo Licini, Paesaggio marchigiano, 1926, olio su tela, collezione privata

Osvaldo Licini, Paesaggio marchigiano, 1926, olio su tela, collezione privata

LA MOSTRA A MONTE VIDON CORRADO

Con La regione delle madri. I paesaggi di Osvaldo Licini, un nuovo e avvincente capitolo di studi si apre su questo artista straordinario che ha sentito l’esigenza di stringere attorno ai colori il sentimento del tempo poetico e di avere come compagni di strada, accanto agli amici corsi avanti (“Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Greco, Rembrandt, Goya, Courbet, Corot, Manet, gl’Impressionisti, Cézanne, Utrillo, Modigliani, Renoir, Fattori”), una serie di altri compagni di strada, i poeti appunto: e con i poeti le parole, le distanze infinite e la “profondissima quiete” dove l’uomo nel pensier si finge per creare un personale e passionale teatro della mente, della memoria.
Curato da Daniela Simoni che da anni dirige con attenzione la Casa Museo e il Centro Studi, questo nuovo appuntamento con l’opera di Osvaldo Licini – qualche tempo fa la stessa Simoni mi diceva che l’artista dei cinque Racconti di Bruto del 1913 (“cento volte tese la mano per donare il suo cuore, cento volte gli uomini si ritrassero con diffidenza”, si legge nell’affascinante e breve novella intitolata Il cuore è in mano) di tanto in tanto saliva sul tetto di casa per ululare alla luna – è ricco di temperature creative, finanche di sorprendenti parachesi visive che mostrano una ricerca libera e non chiassosa, uno scavo nella sintassi della pittura, intesa come “l’arte dei colori e dei segni. I segni esprimono la forza, la volontà, l’idea. I colori la magia. Abbiamo detto segni e non sogni”, ha puntualizzato lo stesso Licini nella sua Natura di un discorso pubblicata sul Corriere Padano di Ferrara il 9 ottobre 1937.

I PAESAGGI DI LICINI

Tra i paesaggi in mostra (Marina del 1921, Paesaggio marchigiano del 1925, Colline marchigiane del 1927, Capriccio n. 2 del 1932, Bilico del 1933, Personaggio del 1945, Angelo su fondo rosso del 1950, Omaggio a Cavalcanti 1954, Amalassunta Luna del 1946, ne sono alcuni) si rileva il passaggio da un “realismo” geometrico e interiore a un primitivismo fantastico a un astrattismo siderale a un antropomorfismo che produce “personpaesaggi”, per giungere via via, tra rigore e capriccio, a risoluzioni enigmatiche cosmiche fluttuanti sinuose originarie (“Il suo orizzonte è più largo, il suo movimento più libero, il suo scopo è d’intercettare con preziosa dialettica il razionalismo geometrico e l’irrazionalismo fantastico di Klee e Miró”, rileva ancora Palma Bucarelli nel 1973) dove l’infinito si palesa per essere preso per mano.
Ti scrivo dalle viscere della terra, la ‘regione delle madri’ forse, dove sono disceso per conservare incolumi alcuni valori immateriali, non convertibili, certo, che appartengono al dominio dello spirito umano”, si legge in una lettera del 1° febbraio 1941 a Franco Ciliberti, fondatore della rivista Valori Primordiali ed esperto di teosofia. “In questa profondità ancora verde, la landa dell’originario forse, io cercherò di recuperare il segreto primitivo del nostro significato nel cosmo”.

Antonello Tolve

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Antonello Tolve

Antonello Tolve

Antonello Tolve (Melfi, 1977) è titolare di Pedagogia e Didattica dell’Arte all’Accademia Albertina di Torino. Ph.D in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico artistica (Università di Salerno), è stato visiting professor in diverse università come la Mimar Sinan…

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