Perché è così difficile parlare d’arte quando i musei sono chiusi?

Numerose istituzioni museali, artistiche e culturali hanno risposto al lockdown con ricchissimi programmi di iniziative online: progetti dedicati, conversazioni, tour virtuali ci hanno accompagnati in questa lunga quarantena. Ma cosa comporta l’esclusività dell’interazione informatica? Cosa significa relazionarsi a un’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità digitale?

Assidui frequentatori di vernissage, animali da presentazione stampa, affiliati a visite guidate con artisti e curatori si sono trovati negli ultimi mesi nell’imbarazzo di dover parlare d’arte – almeno quella “tradizionale” – senza farne esperienza diretta, scorrendo le immagini ad alta definizione dei press kit, con uno sforzo di immaginazione che le simulazioni virtuali non hanno potuto risparmiare. Un’impasse che non ha colpito solo la critica o il giornalismo, ma anche il visitatore, l’appassionato, l’utente delle domeniche piovose. La chiusura forzata e prolungata ha di fatto accelerato processi di smaterializzazione già in atto prima della pandemia, trasformando spazi, esperienze e patrimoni in contenuti digitali. Tendenza che sembra destinata a proseguire anche nei prossimi mesi, dato che il Governo ha annunciato lo stanziamento di fondi per la digitalizzazione del patrimonio culturale. Stiamo forse assistendo all’affermazione di nuove modalità di interazione? Come nei primi decenni del Novecento la maturazione della tecnica rivoluzionò il discorso artistico, siamo ora di fronte a una crisi che renderà necessario ripensare il modo in cui ci relazioniamo all’opera? Non è un’affermazione né una constatazione o una previsione, né tantomeno un’ipotesi. È più una domanda. O tutte queste cose insieme.

LA RESISTENZA DEL DISINTERESSE

Non ci è forse mai stato chiaro come ora che la descrizione verbale o la riproduzione multimediale di un’opera o di una mostra non equivalgano all’esperienza diretta. E non tanto perché testi, foto, video o simulazioni virtuali siano copie in miniatura o imperfette della realtà, ma perché fra questa e quelle vi è una differenza qualitativa, uno scarto incolmabile. L’impossibilità di trovare o realizzare equivalenti, per quanto accurati, deriva dal tipo di rapporto che ci lega alle opere d’arte, rapporto che, a costo di suonare contraddittori, potremmo definire “disinteressato”.
Il concetto di disinteresse non è sinonimo qui di indifferenza, quanto semmai di attenzione nei confronti di qualcosa di specifico, di insostituibile. Contrariamente al mondo della merce, in cui ogni cosa è rimpiazzabile con qualsiasi altra che svolga la medesima funzione altrettanto bene, il modo in cui interagiamo con le opere d’arte assomiglia molto al modo in cui ci relazioniamo (o dovremmo relazionarci) alle persone, ossia riconoscendole non come mezzi, ma come fini in sé. Il nostro interesse è infatti suscitato e al contempo indirizzato all’esperienza dell’opera, e al coinvolgimento percettivo e intellettuale che questa comporta. L’assenza di finalità esterne della nostra attenzione da un lato rende la fruizione disinteressata, dall’altro assicura all’arte la propria autonomia, la propria libertà dallo svolgimento di una funzione che la asservirebbe al sistema degli utilizzabili, delle alternative possibili.
Il collezionismo potrebbe sembrare un buon controesempio a quanto detto fin qui. Tuttavia, se l’obiettivo unico e ultimo fosse effettivamente il possesso, non ci spiegheremmo perché molti collezionisti, dopo aver acquistato l’opera, decidano di esporla, permettendo anche ad altri di constatarne il valore intrinseco che loro per primi hanno riconosciuto. Se invece il collezionismo è vissuto come un modo per diversificare il proprio portafogli d’investimenti, allora è chiaro come in questo caso l’opera non sia considerata nella sua specificità ontologica, ma come oggetto portatore di un valore di mercato e, proprio per questo, sostituibile con oggetti di valore analogo.
L’interesse associato all’opera d’arte non si risolve dunque nel suo consumo o possesso, ma è motivato e alimentato dalla sua capacità di svelare in modo peculiare il mondo in cui viviamo attraverso la (rap)presentazione di mondi possibili, dal suo essere riserva inesauribile di senso. È questa sovrabbondanza di significati, questa resistenza a una spiegazione esaustiva, a rinnovare costantemente la nostra attenzione. Attraverso la sua natura irrisolta e irrisolvibile l’opera ci ricorda il nostro essere, in quanto esseri umani, costitutivamente mancanti.

Martin Kippenberger, The Happy End of Franz Kafka’s “Amerika”, 1994. Installation view at Fondazione Prada, Milano 2020. Photo Andrea Rossetti

Martin Kippenberger, The Happy End of Franz Kafka’s “Amerika”, 1994. Installation view at Fondazione Prada, Milano 2020. Photo Andrea Rossetti

L’OPERA D’ARTE NELL’EPOCA DELLA SUA RIPRODUCIBILITÀ DIGITALE

Come rileva lucidamente Walter Benjamin, la distanza fra opera e pubblico si è accorciata nell’epoca della riproducibilità tecnica. La mediazione della contemplazione riflessiva è stata sostituita dall’immediatezza di uno sguardo frettoloso e distratto. La possibilità di riprodurre (virtualmente) all’in-finito il fatto o l’oggetto artistico ha spogliato l’opera d’arte della sua aura, di quell’alone di autenticità, di originalità, di sacralità che la ammantava fino al XIX secolo.
In ultima analisi, l’aura non è altro che la dimensione storica dell’opera, il suo hic et nunc, il passato e il presente che raccoglie in sé per aprirsi al futuro. In un mondo sempre più veloce, che divora concitatamente ciò che crea, il pubblico anela all’ubiquità, a essere ovunque e sempre per ottimizzare il proprio tempo. Se la tecnica esaudiva in parte questo desiderio, la riproducibilità digitale lo soddisfa appieno. Facendo sempre più fatica a ritagliarci un momento da dedicare all’arte, è lei che si fa spazio nelle nostre giornate, rendendosi sempre più accessibile, a portata di mano (o di pollice). Digitalizzata, si dispone a essere consumata ancora più rapidamente, più distrattamente, portando a compimento quel processo di mercificazione che secondo Benjamin era inscritto nel suo stesso destino, nella logica sottesa al suo sviluppo storico. Nell’epoca della riproducibilità tecnica 2.0, l’opera viene tradotta in contenuto informatico HD, “renderizzata”. L’esperienza museale si trasforma nell’esperienza di una versione inedita, potenziata della realtà, in cui tutto viene svelato nei minimi dettagli: possiamo zoomare, inquadrare il particolare, strappare al mistero e all’ignoto quell’esiguo spazio residuo che la tecnica aveva lasciato loro. Questa “iper-percezione” ci illude di aver risolto la complessità dell’opera, di averne indovinato tutti gli enigmi e di saperla quindi “maneggiare”. Possiamo “appropriarcene” condividendola sulle nostre piattaforme, personalizzandola seconde le nostre esigenze.
La distanza alla fine si azzera e l’aura si frantuma definitivamente. L’opera, spinta a forza nella quotidianità, moltiplicata migliaia di volte per essere ovunque e sempre, finisce con il non occupare mai un luogo specifico. Si appiattisce in un’icona, un simulacro bi-dimensionale che, come le insegne delle multinazionali o i cartelli stradali, non appartiene mai veramente a un posto o a qualcuno. Paradossalmente, alla fine l’opera torna ad allontanarsi dagli individui, riacquista valore rituale ma non come oggetto magico, sacro, sottratto alla voracità del processo capitalistico di produzione-consumo-produzione; si veste piuttosto della seduzione della merce, che invita ad accorciare ancora più in fretta le distanze, per essere consumata e rinnovare bisogni effimeri.
È l’aureola delle star di Hollywood, un fascino labile destinato a essere presto superato nella frenesia schizofrenica del capitalismo avanzato, in cui nulla re-sta, ossia rimane in se stesso. Tutto è sostituibile, tutto fagocita e a sua volta viene fagocitato in un sistema che contiene strutturalmente il germe del suo collasso.

QUELLO CHE RIMANE

Forse siamo davvero testimoni di una svolta, forse il lockdown ha reso effettivamente necessario un ripensamento delle modalità di fruizione, data l’impossibilità di avere accesso ai luoghi e alle relazioni anche interpersonali proprie della cultura. Eppure, la pandemia ha sollevato un problema antico, sottolineando quanto l’opera d’arte non si possa esaurire nelle sue seppur molteplici, in-finite riproduzioni, digitali e non. Quest’idea è di per sé evidente se consideriamo quelle arti in cui la differenza fra originale e copia è sostanziale e immediata ‒ quelle che Nelson Goodman chiama “arti autografiche”, come pittura e scultura; più difficile da applicare alle arti “allografiche” come cinema, teatro o musica, anche se è altrettanto problematico sostenere che un film o una sinfonia siano la somma delle rispettive riproduzioni esistenti e possibili.
Proprio quando pensavamo di averla asservita alle nostre necessità materiali, imbrigliata attraverso la tecnologia, l’arte con uno scarto si porta avanti. C’è qualcosa che resiste al nostro tentativo di ridurla a merce, di incastrarla nel sistema di “utilizzabili” che costellano la nostra quotidianità. Perché, per quanto ci sforziamo, non riusciamo a trovare un’alternativa, qualcosa che funzioni altrettanto bene. Anche se è stata spogliata dell’aura, del suo hic et nunc, forse la sua dimensione ultima non è mai stata quel presente che ha sempre cercato concettualmente e praticamente di trascendere. Forse ciò che la rende insostituibile è proprio la capacità, che condivide solo con la filosofia ma esprime in forma più potente, di partire dal qui e ora per immaginare un altrove, sia esso un gioco dell’immaginazione o un futuro possibile.

Irene Bagnara

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Irene Bagnara

Irene Bagnara

Nata a Bassano del Grappa, è laureata in Filosofia a Padova con una tesi sul caso degli indiscernibili in arte fra Kant e Arthur Danto e in magistrale a Torino con una dissertazione di filosofia analitica sulla definizione ontologica ed…

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