Cambiamento climatico e consapevolezza. L’editoriale di Cristiano Seganfreddo

Il cambiamento climatico è ormai un dato di fatto, ma come si sta muovendo, concretamente, il mondo dell’arte e della cultura?

Tra Greta che se ne va carbon free a New York con la barca monegasca, le installazioni/discussioni natural alla Biennale di Venezia, le carte green dei giornali, con le adv tutte innovation e sostenibilità, il no plastic delle città, le collezioni “save the ocean”, “save the amazon”, “save the planet” della moda e del design, e a margine anche i titoli e i temi di una mostra su tre dedicata a salvare il pianeta, siamo definitivamente entrati nella correttezza di genere anche per la Terra.
Il termine Antropocene, come nuova epoca climatica, ambientale e culturale, è assorbito nei vocabolari conversativi, alla macchinetta del caffè come nei convegni, come lo furono la società liquida di Bauman o il post liberismo selvaggio dei Chicago Boys. Tutto bene, tutto corretto. Tutto organic, vegan, gluten free. Al McDrive te lo offrono in menu e da Starbucks hai 50 cents se arrivi con la tua bottiglietta di alluminio. Tutti, arte e cultura comprese, sono alle prese con questa mission impossibile di salvarci, e venderci, dal nostro continuo inquinamento, di ridurre le emissioni, di vivere consapevolmente. La cosa tira e tirerà.
Si moltiplicano così azioni, panel, discussioni, pubblicazioni. Da Broken Nature, bella, a Stefano Mancuso, interessante, a Gilles Clément, radical. Con i rischi del sovraccarico della rete comunicativa. Non è detto, infatti, che la stessa quantità di argomenti o la presenza di un’unica “sostanza” sia benefica. Un po’ come la concentrazione di ozono che ci regala il misconosciuto buco.

E noi tutti arrivati via aereo, macchina, treno, con mille trolley e accessori vari, e mobile device, tra Uber e taxi, a parlar di futuro, di natura, tra menu vegan e plastica biodegradabile. È l’Antropocene che avanza, meno la sua classe dirigente viaggiante”.

A volte, per fare bene si fa male. Come ad Art Basel all’ultima edizione. Il grande ingresso era popolato, oltre che da migliaia di addetti ai lavori, in senso ampio e lato dell’industria che l’arte è, da una decina di ulivi secolari deportati dal Sud Italia. Piante stupende del Trecento giottesco, che hanno radici di centinaia di metri, castrate in una sacca di terra di meno di un metro cubo. Spostate con grandi camion, euro 2 o euro 3, per decine di ore e messe dentro un capannone durante le giornate invernali a Basilea, piuttosto che lasciarle tranquille. Il tutto per rappresentare il dialogo “about our common future”. Quale? Di quell’Europa rinascimentale? Quella che vorremmo rivedere e ripensare? Come? E noi tutti arrivati via aereo, macchina, treno, con mille trolley di plastica e accessori vari, e mobile device, tra Uber e taxi, ombrelli sfatti, sotto luci da fiera, a parlar di futuro, di natura, tra menu vegan e plastica biodegradabile, in code costosissime, con bollicine tremanti. È l’Antropocene che avanza, meno la sua classe dirigente viaggiante.

Cristiano Seganfreddo

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #51

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