Paintings for rent. L’editoriale di Gabriella Belli

New entry fra gli opinionisti del nostro inserto “Grandi Mostre”, la direttrice della Fondazione Musei Civici di Venezia spiega la logica, non sempre vincente, dei “fee” per il prestito delle opere d’arte.

Tra i numerosi effetti, molti largamente positivi, che la Riforma Franceschini ha introdotto grazie alla sua ferma volontà di svecchiamento delle strutture museali e di ammodernamento delle procedure burocratiche, “l’affitto” delle opere d’arte ‒ una pratica ampiamente in uso in questi ultimi anni a tutto vantaggio del museo prestatore ‒ ci sembra argomento degno della massima attenzione per il significato anche negativo che può assumere nelle relazioni internazionali tra i musei.
L’affitto di opere d’arte, che garantisce l’incasso di un fee all’ente/museo prestatore, è una pratica collaudata da alcuni decenni e coincide con la nascita dei primi soggetti privati produttori di mostre, gli stessi che oggi gestiscono gran parte dell’attività artistica espositiva temporanea nelle città italiane, spesso anche per conto degli stessi enti pubblici.
Si può dire di più: questa pratica, che costituisce una singolarità molto italiana, è stata incentivata, se non inventata, proprio dai produttori privati di mostre, che privi di contrattualità “culturale” (il prestito di un capolavoro a fronte del prestito di un altro capolavoro) sopperirono a questa assenza di reciprocità con lo scambio di concreti vantaggi economici, del resto assai ben accetti dai musei, che nel nostro Paese non hanno mai navigato nell’oro.
Le buone pratiche non sempre hanno seguito, ma in questo caso il pubblico, appena ne ha avuta la possibilità, si è fatto a sua volta soggetto proponente e oggi è sempre più uso comune quello di “rendere liquido” un prestito, a tutto vantaggio ben si intende di investimenti in nuove attività di ricerca o più genericamente in azioni culturali degne di nota.

In Italia, infatti, è bene sapere che esiste un vero e proprio mercato dei fee dove i prezzi si discutono in maniera del tutto arbitraria e per lo più variano secondo il valore dell’opera e del portafoglio di chi fa la richiesta”.

L’argomento è molto sfaccettato e complesso perché non riguarda solo l’affitto di singole opere o parti di intere collezioni museali (come nel caso del Louvre di Abu Dhabi), ma anche l’affitto che il museo stesso paga a soggetti privati e/o pubblici per ottenere in prestito a lungo termine nuclei collezionistici importanti e vitali per l’arricchimento delle proprie raccolte, come nel caso del Mart di Trento e Rovereto, quando come direttore insieme al CdA valutammo positivamente di legare la prestigiosissima collezione VAF – Stiftung per trent’anni al museo a fronte di un fee.
Quello che invece vorrei qui condividere è una riflessione non sull’ordinario ma sugli eccessi di questa prassi e sulla perdita di un’idea di vera collaborazione culturale, oscurata non poche volte da una visione meramente economica.
In Italia, infatti, è bene sapere che esiste un vero e proprio mercato dei fee dove i prezzi si discutono in maniera del tutto arbitraria e per lo più variano secondo il valore dell’opera e del portafoglio di chi fa la richiesta. L’Oriente è in pole position per offerte economiche, seguono i produttori privati nostrani, mentre un certo ritegno sembra, per fortuna, governare ancora i rapporti economici con i musei internazionali.
Poche agevolazioni invece tra colleghi nel sistema museale italiano: spesso ci vediamo costretti a rinunciare a prestiti importanti a causa di fee troppo impegnativi richiesti dai nostri stessi colleghi. Se c’è chi, più consapevole dell’importanza delle relazioni tra musei, richiede la sola copertura delle spese necessarie per la pratica amministrativa, o il restauro dell’opera destinata al prestito, c’è invece chi in maniera del tutto arbitraria applica una una tantum fissa e significativa, o, ancora,  sventolando il fantasma del danno erariale, si dichiara costretto a richieste che superano di gran lunga non solo la logica delle collaborazioni intra-museali su progetti di crescita culturale, ma anche quel profilo di credibilità che una istituzione non dovrebbe oltrepassare.

Questa pratica, che costituisce una singolarità molto italiana, è stata incentivata, se non inventata, proprio dai produttori privati di mostre”.

Ben altre e forse migliori possono essere le strade dell’autofinanziamento, a partire dal rapporto, questo sì serio e trasparente, con soggetti privati, alla fidelizzazione del pubblico, alle grandi campagne di restauro finanziate da soggetti terzi ma anche dall’Europa, ecc. ecc., tutte strade che abitualmente si percorrono e che mi sembrano alternative valide a questa ormai inveterata abitudine che fa perdere di vista lo scopo primario delle nostre istituzioni.
Mentre possiamo concordare sulla richiesta di fee a fronte di prestiti a soggetti privati “commerciali” o a soggetti privati tout-court dove non esiste reciprocità, come, solo per fare un esempio, le grandi holding della moda o della finanza, invitate in questo modo a un atto di mecenatismo verso il pubblico, è difficile comprendere la relazione economica che viene a stabilirsi tra i musei che per missione specifica hanno proprio il fine culturale.
Mi sembra che questa prassi finisca con il negoziare la ricerca di una più che necessaria autonomia economica, rinunciando ai principi basilari che caratterizzano il senso e la missione dei nostri Istituti.
Recentemente, in un’assemblea che riunisce le direzioni scientifiche dei più importanti musei del mondo, si è ribadito il principio di reciprocità tra le istituzioni culturali, valido ovviamente anche per i prestiti non onerosi d’opere d’arte. Inutile dire che l’Italia non è nell’albo d’oro con questa sua prassi.
Confidiamo dunque che la corsa all’autonomia finanziaria dei nostri musei non perda mai di vista l’obiettivo culturale e lo scambio continuo di quelle proficue collaborazioni scientifiche, che hanno fatto crescere nel campo dell’arte il valore del nostro Paese.

Gabriella Belli

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #10

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