Case d’artista #4. L’infinito silenzio di Giorgio Morandi

Ultimo appuntamento con le “case d’artista” descritte da Giulia Oglialoro. Stavolta la dimora è a Bologna e fra le sue pareti dipingeva Giorgio Morandi.

Il luogo in cui Giorgio Morandi per quasi una vita ha vissuto e creato è una piccola stanza, ora chiusa su due lati da alte pareti di vetro. La finestra ai piedi del letto è sigillata, da lì un tempo ci si poteva affacciare sul cortile di via Fondazza 36 e vedere Bologna e le case addossate e gli alberi che si allungano su per i muri. Da quella finestra entrava la luce che ha commosso Ghirri e molti altri fotografi.
La ricostruzione dello studio è fedele, mi dice la guida all’ingresso del museo, gran parte degli oggetti esposti sono originali. Un peperoncino rosso brillante attira subito la mia attenzione, penzola da un ferro di cavallo inchiodato al muro. Un minuscolo dettaglio, una superstizione comune, rompe la solennità della teca di vetro e mi fa pensare che davvero un uomo in questa stanza ha vissuto e sperato qualcosa. Non un set scenografico, dunque, ma uno spazio di esistenza concreta, e quel peperoncino ne è il centro. Da lì il mio sguardo si apre, corre sui muri scrostati, sui fondali accartocciati in un angolo, sul tavolo impolverato in fondo alla stanza – lì vedo schierati vasi da fiore, bottiglie, teiere, tazzine in ceramica e lattine d’olio e tutti quegli oggetti così cari a Morandi. Noto il cavalletto con gli stracci rappresi, lasciato così come l’ultima volta che è stato usato. E poi i pennelli col pelo secco, e una squadra, appesa al muro, per misurare il mondo e nominarlo in forme elementari.

Mentre nel mondo scoppiavano guerre, l’arte usciva dai musei e si faceva sfida, provocazione, Morandi restava in questa casa, condivisa con la madre e le sorelle, in questi pochi metri quadrati di polvere e luce, e dipingeva”.

Per più di cinquant’anni (dal 1910 al 1964, precisa la guida), nella solitudine del suo studio Morandi non ha dipinto altro che il paesaggio fuori dalla finestra, o i pochi oggetti sistemati sul tavolo. Solo questo e nient’altro, con pazienza e ostinazione, in una serena attesa di niente. Di tanto in tanto spostava qualche lattina, isolava tre o quattro bottiglie, imbastiva piccoli teatri del quotidiano che poi contemplava per ore. La sua pittura non cercava l’imitazione realistica e non cedeva nemmeno all’astrattismo. Dipingere era per lui un gesto rituale, uno sforzo umano e artistico di attenzione. Nelle nature morte di Morandi gli oggetti sono ridotti a sagome elementari: l’aria attorno a loro si fa materia vibrante, i colori sono semplici aggregazioni di luce. Tutto è vivo e immobile, sottratto al tempo e regalato a un infinito stupore. Mentre nel mondo scoppiavano guerre, l’arte usciva dai musei e si faceva sfida, provocazione, Morandi restava in questa casa, condivisa con la madre e le sorelle, in questi pochi metri quadrati di polvere e luce, e dipingeva. Dipingeva il muto accadere della vita davanti ai suoi occhi.

MORANDI E GHIRRI

Se faccio un passo indietro le bottiglie e gli oggetti sul tavolo si riflettono sulla parete di vetro, in un gioco di trasparenze compaiono come fantasmi appesi nel vuoto. Se mi avvicino troppo non riesco ad abbracciare tutto lo studio in un unico sguardo, e allora cerco di continuo la giusta distanza, torno a fissare il peperoncino, mi muovo avanti e indietro in una piccola danza di attenzione. Non posso fare come ha fatto Ghirri, non posso varcare le pareti di vetro, spalancare la finestra, sostare in mezzo alla stanza inondata di luce.
Capisco che Ghirri è un grande fotografo perché quando guardo le sue fotografie mi manca il mondo; ho nostalgia per il mondo tutto, per le case illuminate in lontananza in mezzo alle colline, per i vicoli che non ho mai visto, per lo studio di Morandi e i suoi oggetti semplicissimi. E forse è questo che accomuna i due artisti: tutto nelle loro opere ci è familiare, sospeso in una vaghezza in cui il cuore non si spaura. In un tempo e in luogo in cui le cose ci sono vicine, un attimo prima di averle perse per sempre.

Giulia Oglialoro

Case d’artista #1. “Ab Ovo” di Luca Ferri
Case d’artista #2. Diane Arbus
Case d’artista #3. Chantal Akerman

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Giulia Oglialoro

Giulia Oglialoro

Giulia Oglialoro (1992) si è laureata a pieni voti in Storia dell’Arte all’Università di Bologna con una tesi sulla ricerca identitaria di Claude Cahun tra scrittura e fotografia. Ha collaborato con il centro di ricerca teatrale Laboratorio41 di Bologna, ha…

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