La cultura deve iniziare a studiare

Qual è il futuro delle Industrie Culturali e Creative? I computer, sempre più capaci di apprendere, e l’universo dei big data possono fornire ottime strategie per raccogliere informazioni sulla potenziale audience di un prodotto culturale.

Iniziamo con un indovinello: cos’hanno in comune una partita di Go, disegnare scarabocchi su un Pc e un amministratore delegato? Il futuro delle Industrie Culturali e Creative.
Non è uno scherzo: per quanto paradossale possa sembrare, nei prossimi anni l’unione di questi tre fattori potrebbe determinare una serie di cambiamenti tali da trasformare (quasi) completamente l’approccio non solo alla “distribuzione” ma anche alla “produzione” delle ICC. Più nel dettaglio, si tratta dell’integrazione fra le tecnologie dei big-data e del machine learning unita al necessario incremento delle competenze che i decision maker aziendali dovranno mostrare per far fronte allo scenario che si va delineando.
Iniziamo dalla partita di Go: molti ricorderanno quando Deep Blue (il computer prodotto dalla IBM) sconfisse a scacchi il maestro Kasparov. Nulla di nuovo dunque, sembrerebbe. Ma è un errore. Perché Go (malgrado abbia regole più elementari degli scacchi) vanta un numero di partite possibili infinitamente più ampio rispetto a quelle degli scacchi (10761 contro 10120: per fornire un elemento di paragone, si pensi che gli scienziati stimano in 1080 gli atomi dell’universo).
Senza entrare in tecnicismi, la differenza si può riassumere in maniera un po’ semplicistica dicendo che le possibili combinazioni di Go sono talmente elevate che il computer non decide sulla base di algoritmi predefiniti, ma gioca le mosse “imparando” dalle partite precedenti, inserendo insomma quella che potremmo definire una specie di “creatività”. Per meglio comprendere il fenomeno, si guardi la partita a Breakout giocata da un computer che ha avuto l’obiettivo di massimizzare i punteggi: all’inizio gioca a caso, dopo due ore gioca come un esperto, dopo quattro ha elaborato una strategia. Letto bene? Elaborato. Questo significa che, data una funzione obiettivo, il computer è in grado di sviluppare strategie che gli permettano di perseguirlo.

Fin quando chi si occupa di cultura e di creatività non si rimboccherà le maniche per apprendere le nuove tecnologie informatiche e come queste siano in grado di “suggerire” nuovi scenari, non ci sarà quella vera rivoluzione che sembra ineluttabile”.

Cosa c’entra questo con i big data e con le ICC? Semplice: big-data è il nomignolo simpatico con cui sono state rinominate le enormi moli di dati che vengono prodotte (si pensi, banalmente, ai social network) e che richiedono particolari tecniche di indagini. Si pensi poi, in successione o in contemporanea, a quanti di questi dati presenti su Internet riguardino in generale il “contenuto”: dalle vacanze ai libri letti, dalle passioni comunicate alle amicizie, dai film alle opere d’arte, fino ad arrivare in modo molto più semplice alle esperienze di vita (generiche) e alla tipologia di commento con cui vengono comunicate. Se si incrociano queste enormi potenzialità, sarà possibile stabilire itinerari personalizzati, sviluppare opere d’arte in grado di provocare sensazioni specifiche, produrre film in grado di veicolare perfettamente le emozioni e produrre serie televisive composte da elementi tratti da altre serie.
Alcune di queste cose, giusto a titolo informativo, sono già state realizzate: House of Cards nasce proprio dall’analisi dei dati degli utenti Netflix e allo stato attuale c’è un computer che sviluppa trailer dei film selezionando le immagini dal lungometraggio e testando il montaggio su un altro computer che “simula” le emozioni umane. Sembra fantascienza ma in realtà è quasi storia; ma non per tutti. Un’indagine di qualche anno fa, condotta da Nesta UK, ha dimostrato come le industrie culturali e creative britanniche sono poco “data driven”; vale a dire: la maggior parte delle ICC operanti nel Regno Unito si affida poco ai dati (di produzione, di consumo e di comunicazione degli utenti) per affrontare delle scelte strategiche.

CONOSCERE L’AUDIENCE POTENZIALE

Come mai? La risposta è nel terzo anello dell’indovinello: fin quando chi si occupa di cultura e di creatività non si rimboccherà le maniche per apprendere le nuove tecnologie informatiche e come queste siano in grado di “suggerire” nuovi scenari, non ci sarà quella vera rivoluzione che sembra ineluttabile. Ed è assurdo: nessun settore più di quello delle ICC ha bisogno di comprendere i consumi del proprio target. Gli altri settori si basano soprattutto sul consumo: chi acquista una tipologia di auto (ad esempio, macchine con valore al di sopra di 300mila euro) sarà difficilmente interessato a una Panda. O quantomeno è più probabile che chi ascolti Wagner ascolti anche i Nouvelle Vague o Matthew Herbert, che un manager di una multinazionale esca la sera in Maserati e raggiunga il proprio ufficio con la Ford Fiesta.
Cosa significa tutto ciò? Che la classificazione dei consumi culturali è necessariamente più aleatoria dei consumi automobilistici (così come di molte altre industrie) e che quindi è sempre più necessario che chi deve decidere quali beni o servizi culturali produrre si basi su una conoscenza approfondita della propria audience potenziale. Ma a noi, “uomini di cultura”, tutto questo non piace. Troppo prosaico, troppo deterministico, troppo difficile.

Stefano Monti

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39

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Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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