Una scenografia di carta per la tragica fiaba di Barbablù in versione lirica

Un’opera lirica noir liberamente tratta dalla celebre fiaba popolare dell’orrore diventa strumento per un’esplorazione psicologica del ruolo della donna in questa tragedia. Merito della nuova co-produzione di Fondazione Teatro Coccia di Novara e Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi

La tradizionale interpretazione della fiaba di Barbablù, concentrata sulla crudeltà uxoricida del principe e sulla curiosità della giovane moglie, in questa versione dell’unica opera lirica di Béla Bartók, riallestita dalla Fondazione Teatro Coccia di Novara in co-produzione con la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, fa posto a una indagine più profonda e sfaccettata della figura femminile. L’opera, rappresentata per la prima volta a Budapest nel 1918 con libretto di Béla Balàsz in lingua ungherese, oggi viene riproposta dalla regia di Deda Cristina Colonna e tradotta in immagini dalla scenografia e dai costumi dell’artista urbano Matteo Capobianco. Lo spettacolo lirico, che ha debuttato nelle due città nelle scorse settimane, è stato eseguito dall’orchestra del Teatro Coccia diretta da Marco Alibrando con un’orchestrazione per un organico ridotto a ventitré elementi anziché novanta di Paola Magnanini e Salvatore Passantino.

Deda Cristina Colonna (regia), Barbablù. Teatro Coccia, Novara 2021. Photo © Stefano Binci

Deda Cristina Colonna (regia), Barbablù. Teatro Coccia, Novara 2021. Photo © Stefano Binci

LA STORIA DI BARBABLÙ

Al contrario della fiaba di Charles Perrault, con protagonista il sanguinario assassino, che ha l’intento pedagogico di mettere in guardia da una smodata curiosità, caratteristica tutta femminile, la regia in questa versione pone al centro la figura della moglie, Judith, vestita del bianco della purezza e delle chiavi della conoscenza. Inizialmente giovane sposa entusiasta e sorridente, pur messa in guardia dalle due figure femminili del prologo ‒ le due anime della sposa: la parte più razionale e quella più istintiva ‒, si intestardisce nel suo ruolo salvifico nei confronti del marito fino a quando, all’apertura delle prime porte, inizia il suo percorso di conoscenza che trasforma il suo stato di ingenuità in una vita adulta e consapevole e si accorge che “il suo bell’abito di seta è rimasto impigliato”.
La musica graffiante, dissonante e stridula del musicista ungherese esprime fin dall’inizio la perpetua incomunicabilità dei due protagonisti che cantano attorno a due note tra loro armonicamente lontanissime: fa diesis per lui (Andrea Mastroni) e fa naturale per lei (Mary Elizabeth Williams), che si fronteggiano nell’ambiente del castello senza mai incontrarsi veramente e anzi scambiandosi, anche musicalmente, l’atteggiamento nei confronti dell’ineluttabilità della vita.
Freddo e distaccato, un Barbablù dalle vesti sanguigne accoglie nel suo mondo una Judith intraprendente e sicura di sé, certa di poter cambiare il mondo, ma che si accorge, porta dopo porta, chiave dopo chiave, estorta con fermezza al principe reticente, che è rimasta impigliata alla vita.

Deda Cristina Colonna (regia), Barbablù. Teatro Coccia, Novara 2021. Photo © Stefano Binci

Deda Cristina Colonna (regia), Barbablù. Teatro Coccia, Novara 2021. Photo © Stefano Binci

LA SCENOGRAFIA E I COLORI DELL’OPERA LIRICA

L’artista Matteo Capobianco, che è solito trasformare le strade in un teatro dell’arte contemporanea con le sue installazioni di carta e i dipinti sui muri, fa del castello del principe Barbablù ‒ ispirato alle architetture geometriche dell’imperatore medievale Federico II di Svevia ‒ la giostra e il metronomo della storia: figura simbolica perfetta (sette sono sempre anche le prove degli eroi nelle fiabe), dalle sette porte dell’eptaedro entrano ed escono i due interpreti in un rincorrersi in uno spazio che diventa sempre più claustrofobico perché frammentato e ostruito dalla ragnatela di fili che i due vanno intessendo con il dipanarsi della loro relazione.
Nell’essenzialità dei colori prescelti – solo bianco e rosso, oltre al nero del fondo ‒, gli elementi sanguigni si vanno sovrapponendo a poco a poco al candore della sposa. Non sono però i delitti commessi dall’orco a tingere di rosso le mani e le vesti della protagonista, è l’esistenza stessa con tutta la sua carica di catene, violenza, lacrime, materialità e dolore, dalla quale lui la vorrebbe tenere lontana, segregata, ma che lei ugualmente scopre dietro alle porte, contaminandosene. Nel finale infatti la purezza, ingenuità e testardaggine della giovinezza di lei sono compromesse, Judith scopre di non essere l’unica donna, ma è solo la donna della notte. Ciò che la uccide interiormente è la fine della speranza, proprio quando il suo principe si lascerebbe andare alla passione avendo trovato con chi condividere il peso della vita.
Una fiaba che spesso viene utilizzata come archetipo del femminicidio in questa elegante versione musicale sposta l’attenzione sul ruolo della donna nella tragedia: sulla sua caparbietà nel lanciarsi alla conquista dell’amore impossibile, quando altre conquiste del mondo esterno forse le sono state negate; sull’ergersi a sorda salvatrice del mondo quando l’altro vuole invece essere accettato in tutte le sue caratteristiche anche contraddittorie di bene e di male.
E, proprio come in una fiaba, nel teatro le visioni dell’immaginario medievale di Matteo Ufocinque Capobianco si trasformano in realtà.

Annalisa Filonzi

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Annalisa Filonzi

Annalisa Filonzi

Laurea in Lettere classiche a Bologna, torno nelle Marche dove mi occupo di comunicazione ed entro in contatto con il mondo dell'arte contemporanea, all'inizio come operatrice didattica e poi come assistente alla cura di numerose mostre per enti pubblici e…

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