T*Danse. Danza e tecnologia in Valle D’Aosta

Quarta edizione del festival aostano T*Danse – Danse et Technologie. Abbiamo intervistato i curatori artistici Francesca Fini e Marco Chenevier.

Siamo alla quarta edizione di questo giovane festival che porta in Valle D’Aosta, regione lontana dai circuiti performativi e priva, a oggi, di una stagione teatrale dedicata al contemporaneo, alcune tra le realtà più importanti della danza e della performance internazionale. Riflettendo sul rapporto tra arti performative e tecnologia, il valore di T*Danse – Danse et Technologie non è solo nella programmazione ma anche, e soprattutto, nel lavoro preliminare di audience engagement, portato avanti secondo modalità innovative anche rispetto a molti altri festival nazionali che agiscono sul territorio da ben più lunga data.
Ad Aosta dal 20 al 27 ottobre, ne abbiamo parlato con i due curatori artistici, Francesca Fini e Marco Chenevier.

Giunto alla quarta edizione, T*Danse – Danse et Technologie continua a riflettere sul rapporto tra danza e nuove tecnologie, un tema molto indagato internazionalmente. Quale approccio avete voluto privilegiare per il vostro festival?
Marco Chenevier: Intendiamo il termine “tecnologia” in senso lato. Non solo le tecnologie digitali e all’avanguardia, ma anche le tecnologie come “strumenti di innovazione”, quindi in senso filosofico. Nel 2016 abbiamo programmato lo spettacolo di Roberto Castello e Andrea Cosentino, Trattato di economia, perché in quell’edizione facevamo riferimento alla moneta come tecnologia. Oltre allo spettacolo del duo Castello / Cosentino era in programma anche una conferenza del filosofo Davide Gallo Lassere, La liberazione dal denaro attraverso il denaro. Ecco da una parte questa ricerca in termini filosofici, dall’altra anche in termini estetici; la tecnologia è presente al festival. Preferiamo spettacoli in cui le tecnologie siano fondamentali per la drammaturgia, non sono dei tool utilizzati a scopi estetici, ma l’inizio di un processo o di un ragionamento. Il lavoro di Francesca [Fini, N.d.R.], per esempio, si installa in questo tipo di indagine, come quello di tanti altri artisti invitati in questa edizione.

Francesca Fini, The Paper Wall. Courtesy T_Danse

Francesca Fini, The Paper Wall. Courtesy T_Danse

Su quali assi di ricerca si concentrano gli spettacoli protagonisti del festival, rispetto al rapporto tra danza e tecnologie?
Francesca Fini: Il festival ha due anime: la danza e la performance, incarnate da Marco e da me. Le performance di quest’anno sono estremamente tecnologiche, laddove per tecnologia intendo anche quei linguaggi che oggi potrebbero essere considerati vintage: audio, video, suono interattivo. Quattro performer donne che utilizzano la tecnologia all’interno di una drammaturgia forte talvolta pone in risalto anche materie “classiche”, appartenenti alla tradizione (come nel lavoro della messicana Melina Pena, in cui elementi dello sciamanesimo del sud del Messico, come il sale, si mescolano a scenari fantascientifici, quasi alla Blade Runner). In modo analogo in Elettra, di Paola Zaramella, la tradizione classica, legata alle culture del Mediterraneo a partire dal mito di Elettra, si inserisce in una pratica di utilizzo di video live e suono interattivo. Queste donne performer scavano le proprie radici per reinterpretarle in modo originale attraverso l’utilizzo delle tecnologie.
Nicoletta Cabassi utilizza la tecnologia per creare interazione tra movimento e suono generativo (in quadrifonia), dando vita a una “coreografia sonora” – nella definizione dell’artista ‒ che si esplicita in una dimensione immersiva. L’opera è creata in collaborazione con il Collective-Octo-Lab, che lavora anche con Bob Wilson. E infine una mia installazione performativa e durazionale, The Paper Wall, che evolve nell’arco dell’intera settimana, realizzata con i ragazzi dell’alternanza scuola-lavoro. Un muro di cartone, che evoca il muro di Trump con il Messico o quello di Berlino, delimita un’area in cui ragazzi e robot interagiscono in una action painting robotica, per significare l’impossibilità di racchiudere la vita all’interno di un’area circoscritta.

Ci sono delle tendenze che vedi emergere in questo campo?
Noto una tendenza di ritorno al cyberpunk: performance femminili in una dimensione 2.0 estremamente forte. Ne parlavo con Helena Velena [artista, cantante, produttrice, attivista transgender e cyberpunk, N.d.R.], che mi ha detto: “Donna Harvey teorizzò il cyberpunk troppo presto”. E adesso sta tornando prepotentemente. Adesso gli strumenti a disposizione, culturali, interattivi, tecnologici, sono maggiori e le donne se ne stanno riappropriando finalmente.

Quale rapporto con il corpo emerge dagli spettacoli?
Marco Chenevier: Un altro fil rouge è quello della sovversione, in cui il corpo ha un ruolo importante. Lo ha nel lavoro di Darragh McLoughlin sul rapporto tra statement e immagine, sovvertendo i codici museali dell’arte visiva. Anche il Melting Pot di Marco Torrice crea uno spettacolo che diventa una serata danzante ad Aosta. Il corpo come strumento politico per la sovversione. E da questo penso che in fondo l’elemento più sovversivo, che appartiene al festival fin dall’inizio, è la sua dimensione di festa, come atto politico. E non riesco a immaginare nulla di più festoso che la ricerca del nuovo.

Cindy Van Acker, Shadowpieces. Courtesy T_Danse

Cindy Van Acker, Shadowpieces. Courtesy T_Danse

Gli artisti selezionati sono nomi noti (Cindy Van Acker) ma anche giovanissimi. Come li avete scelti? Privilegiate nuove produzioni o anche pezzi di repertorio? Che formati portate in scena?
Marco Chenevier: La scelta dei formati dipende ‒ anche ‒ da un desiderio, a monte, di costruire delle serate con una proposta ibrida e spettacoli della durata contenuta (30-50 minuti), per offrire un’esperienza piacevole anche a un pubblico meno habitué. Quindi Cindy Van Acker, pietra miliare della danza con un lavoro concettuale e con tempi lunghi, è affiancata a Kulu Orr, che con Control freak porta in scena giocoleria e interazione con un software per il controllo del suono. D’altra parte bisogna considerare che ad Aosta non c’è ancora una stagione teatrale dedicata al contemporaneo, per questo motivo ci permettiamo, in un’ottica di decentramento culturale, di portare anche spettacoli meno recenti, che però sul territorio regionale non erano mai passati (e neanche a Torino). Il festival è, per ora, l’unico sguardo sul contemporaneo della regione. Questa situazione cambierà perché, notizia freschissima, la città avrà una sua stagione dall’anno prossimo presso la Cittadella dei Giovani d’Aosta, con un programma di residenze per il nuovo circo, la danza e il teatro contemporanei, ma anche di musica e cinematografia. Dunque il festival potrà rivolgersi sempre più a una programmazione audace e di ricerca, con quasi esclusivamente prime assolute e nazionali. Noi siamo al centro di questo grande progetto e ne siamo molto felici.

Artisti, cittadini, turisti entrano a far parte di una grande comunità, il tempo del festival. In che modo si crea questa comunità? Quale è l’aspirazione dietro questa volontà forte? Quali sono stati gli effetti, i risultati di questo modo di agire, visibili nelle edizioni passate?
Marco Chenevier: Il primo anno avevamo 30-40 persone in sala, il secondo e il terzo anno sold-out. Il collegamento al territorio non avviene attraverso la programmazione, ma con tutti i dispositivi di audience engagement e development che sono al cuore della progettualità. Ad esempio, attraverso il dispositivo #coinvolgiti, chiediamo ai cittadini di ospitare gli artisti per tutta la durata del festival, in cambio di biglietti per gli spettacoli. Agli artisti chiediamo di partecipare alla vita del festival restando tutta la settimana.

Admin Silke Z., Still (Here). Die Metabolisten. Photo © Meyer Originals. Courtesy T_Danse

Admin Silke Z., Still (Here). Die Metabolisten. Photo © Meyer Originals. Courtesy T_Danse

Come spiegavi, l’iniziativa #coinvolgiti prevede che degli “host” del territorio diano accoglienza alla comunità di artisti e ospiti del festival. Qualcosa che si è cercato di fare altrove, penso a Short Theatre, ad esempio, ma che qui sembra funzionare in modo particolare.
Marco Chenevier: Dipende da come si fanno le cose. Ci è voluto tanto lavoro, due persone dello staff si occupano unicamente di questo progetto e io stesso ho passato lunghe ore a parlare con i cittadini uno a uno. Nessuno credeva, all’inizio, che sarebbe stato possibile; oggi sono sessanta le famiglie che mettono a disposizione una stanza nelle loro case. Al festival di Birmingham, in Inghilterra, ad esempio, funziona così da tempo: in UK questa pratica fa parte del sistema culturale, in Italia bisogna costruire il paradigma, ma con caparbietà si arriva ovunque!

Non solo spettacoli ma anche incontri e soprattutto masterclass aperte al pubblico e gratuite, condotte dagli artisti stessi su temi diversi, che prevedono sempre un principio esperienziale rispetto alle tecnologie portate in scena. Aperta ai non-professionisti è anche la Battle “All Style”, che mescola hip hop, danza classica e contemporanea, condotta da una delle compagnie in scena. È il primo anno che attivate questo tipo di pratiche? Cosa innestano in chi (di solito) guarda e in chi (di solito) fa?
Francesca Fini: Un’altra iniziativa importante è il progetto di alternanza scuola-lavoro, con gli studenti del liceo che integrano lo staff del festival in tutti gli aspetti, dalla comunicazione all’installazione fino alle performance. È un programma biennale che permette di seguire una formazione continua, forse un unicum in Italia. Uno di loro quest’anno è entrato nello staff ufficiale del festival e crea documentazione foto e video. Noi speriamo che tra cinque o sei anni qualcuno di loro sarà al posto nostro.

Quanti ragazzi avete?
Marco Chenevier: Nelle terze abbiamo una settantina di ragazzi più un’altra settantina nelle seconde di una scuola d’arte. I ragazzi di quarta, invece, che non hanno più accesso al progetto, marinano la scuola per venire a lavorare con noi!
La Battle, il ciclo di conferenze, le masterclass sono attività del festival, l’audience engagement fa parte invece del processo di progettazione: chiedere al territorio di partecipare all’ideazione del festival. Andare in biblioteca e parlare con i ragazzi e coinvolgerli, creare curiosità, partecipazione. Portare gli allievi delle scuole di danza con le loro maestre, tutti, a vedere gli spettacoli. Chiedere ai liceali cosa secondo loro mancasse al festival e così creare delle grandi tele di libera espressione. In modo che sia il loro festival. Francesca e io veicoliamo i desideri e i contenuti del territorio, affinché prendano forma.

Chiara Pirri

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Chiara Pirri

Chiara Pirri

Chiara Pirri (Roma, 1989), residente a Parigi, è studiosa, giornalista e curatrice, attiva nel campo dei linguaggi coreografici contemporanei e delle pratiche performative, in dialogo con le arti visive e multimediali. È capo redattrice Arti Performative per Artribune e dal…

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