Teatro. Frammenti di memoria su Memè Perlini

Marco Palladini ricorda uno dei grandi nomi del teatro d’avanguardia italiano, scomparso agli inizi di aprile. Una parabola creativa da non dimenticare, fra palcoscenico e schermi cinematografici.

L’ultima volta che ho incontrato Memè Perlini è stato sette mesi fa. Stavo andando via dal Teatro India di Roma dove avevo partecipato a un tributo collettivo per la scomparsa del regista Simone Carella, un altro dei protagonisti in prima fila dell’avanguardia scenica degli Anni Settanta. Mentre camminavo sul marciapiede del lungofiume, incrociai un paio di persone. Uno dei due uomini, in particolare, mi fissava insistentemente. Ricordo che mi chiesi il perché, non mi sembrava di conoscerlo. Poi, a un tratto, quando eravamo quasi l’uno di fronte all’altro, lo guardai negli occhi ed ebbi un balzo al cuore: era Memè Perlini e non lo avevo riconosciuto. Appariva trasfigurato: fortemente dimagrito, lo sguardo spento, il viso terreo, l’aspetto devitalizzato. Deambulava come un fantasma o uno zombie. “Memè!” – esclamai – “ma come stai?”. Con una stanca smorfia, “Eh, così…”, mi rispose. Provai a dire qualche altra frase di circostanza, ma lui reagiva con avari monosillabi. Perlini palesemente leggeva sulla mia faccia lo sconcerto, lo shock per vederlo in quelle condizioni, forse un po’ se ne vergognava. Alla fine lo toccai sulla spalla, meno di un abbraccio, e lo salutai dicendogli, un po’ goffamente: “Stammi bene”. Allontanandomi, ebbi la precisa sensazione che non lo avrei più rivisto. Purtroppo è stato così.
Nella notte tra il 4 e 5 aprile Perlini si è suicidato, gettandosi dal quinto piano della sua abitazione, in via Principe Eugenio, nel quartiere Esquilino di Roma. La depressione profonda di cui soffriva da tempo lo ha sospinto all’atto finale. Una depressione che aveva radici lontane, già nei primi Anni Novanta lui appariva disamorato, disinteressato alle trasformazioni del movimento della ricerca teatrale di cui era stato vent’anni prima un fulgido protagonista. Il “male oscuro” (come lo chiamava Giuseppe Berto) è un brutta bestia. Una volta che ti possiede e ti trascina giù nel suo gorgo, è molto difficile venirne fuori, analisi e psicofarmaci a volte servono a poco. Delusioni personali, professionali, sentimentali avevano creato una zavorra esistenziale che ha via via prosciugato l’energia creativa e vitale di Memè. Negli ultimi anni, mi hanno detto, non lavorava più, non usciva, non voleva vedere nessuno. Si era ritirato in sé. Un preludio fatale, comune ai mistici o, appunto, ai suicidi.

GLI ESORDI

Mi piace ricordare di Perlini la sua faccia zingaresca, gli scompigliati riccioli neri, i baffi spioventi, l’espressione sardonica e curiosa, la sua disincantata leggerezza, anche mondana, tipica di chi, fin da giovanissimo, aveva fatto la scoperta del proprio talento. Era giunto nella capitale a vent’anni al momento giusto, nel ’68, in un tempo in cui tutto stava nascendo ed esplodendo, sia sul piano socio-politico sia su quello artistico-culturale. Lui era nato nel dicembre del 1947 in un paesino, Sant’Angelo in Lizzola, in provincia di Pesaro, una terra ufficialmente marchigiana, in realtà profondamente romagnola per umori e dialetto. La sua era una famiglia di giostrai e questa matrice, in qualche modo circense, poi si travasò chiaramente nel teatro che si diede a fare. Studente dell’Accademia delle Belle Arti in qualità di disegnatore e illustratore, in quella Roma in cui tutto si mescolava e si contaminava finì per incontrare il pittore e regista Giancarlo Nanni che, proprio in quel momento, al Teatro La Fede a Porta Portese, si stava inventando ciò che il critico princeps dell’avanguardia, Beppe Bartolucci, battezzò con l’etichetta di “teatro-immagine”. Ancora col nome originario di Amelio Perlini, partecipò così in veste di attore a tre storici e cruciali spettacoli di Nanni: L’imperatore della Cina (1969), A come Alice (1970), Risveglio di primavera (1972).

IL DEBUTTO ALLA REGIA

Quello era, comunque, un tempo in cui le cose accadevano molto velocemente. Dopo l’apprendistato teatrale con Nanni, anche in veste di collaboratore per la parte visuale, Perlini decide di fare da sé e debutta come regista nel gennaio del 1973 con Pirandello chi?. È un debutto folgorante a soli venticinque anni, elogiato da tutta la critica. Appare subito evidente che, con Nanni e Vasilicò (Le 120 giornate di Sodoma, 1972), Perlini è la punta di diamante del “teatro-immagine”, che in buona sostanza si proponeva di superare il teatro di parola per un teatro dove predominasse la scrittura scenica, o composizione scenica che dir piaccia, un teatro “teatrale” dove figure, gesti, corpi, immagini, luci e suoni costituivano un “testo scenico” di per sé, senza il supporto della parola drammaturgica.
Pirandello chi? era una sorta di omaggio e onirica memoria di uno dei testi capitali della drammaturgia italiana ed europea del primo Novecento, Sei personaggi in cerca d’autore. Di cui sopravviveva qualche battuta qui e là, ma soprattutto si evocavano alcune dramatis personae (come la Figliastra-Rossella Or), alcune immaginifiche schegge, gestualità celibi, cose e simboli tramite un montaggio para-cinematografico che isolava nel buio singole figure e visioni, creando una sorta di campo e controcampo, attenzione al dettaglio e poi a un insieme. Perlini in prima persona manovrava a mano un proiettore che isolava nel buio porzioni di spazio, moltiplicando la visione e i piani di prospettiva, riuscendo a elaborare un movimento scenico-cinetico fluido e sempre illuminante, affascinante, al contempo di grande evidenza e imprendibile, come sono le sequenze paratattiche di un sogno. Uno spettacolo pressoché perfetto che fu avvertito quasi come il manifesto inaugurale di una nuova tendenza.

LE OPERE SUCCESSIVE

Sull’abbrivio di questa primigenia creazione scenica Perlini realizza una serie di allestimenti che tendono a esplorare e articolare il suo linguaggio visivo, ma sinceramente senza riuscire ad andare oltre la magica grazia del proprio esordio. In Tarzan e Candore giallo (entrambi del 1974), Memè prosegue il suo lavoro di scomposizione e frammentazione dello spazio scenico, tramite l’uso quasi virtuosistico dei tagli di luce. Come se Perlini in veste di operatore luministico dal vivo vedesse il lavoro di regia alla pari di un pittore che nel contrasto tra luci e ombre dipingesse direttamente sulla realtà tridimensionale della scena. In Candore giallo (con suono di mare), esplicito omaggio alla pièce di Kandinskij Suono giallo, appaiono gli interventi pittorici e gli elementi scenografici di Antonello Aglioti, che da lì in poi diventerà per almeno tre lustri l’inseparabile compagno di vita e d’arte di Perlini, per molti versi il co-creatore dei suoi spettacoli mercé l’ideazione di eterocliti, spiazzanti e inventivi ambienti scenografici. Qui l’andamento della risacca di mare sembra quasi suggerire una sfilata di tableaux vivants, tra iconiche immobilità, gestualità iterative, molteplici visioni disconnesse (un’automobile, un cavallo, una carrozzella, un danzatore, una sedia in fiamme), quasi un crogiolo di scontraffatto inconscio lungo un procedimento di squisita marca surrealista e astratta, accompagnato dalle musiche circolari di Alvin Curran.
Nei successivi Otello (1974), Locus solus (1976), La partenza dell’argonauta (1976), Risveglio di primavera (1978), Cavalcata sul lago di Costanza (1979), il percorso teatrale Anni Settanta di Perlini è come se si stabilizzasse e in esso si insinuasse un sottile refolo di manierismo, di ripetizione, di “gestione” di uno stile. Il meccanismo appena introdotto delle sovvenzioni statali impone sempre nuove produzioni, e si fanno spettacoli non per reale necessità e urgenza artistica, ma per riempire le caselle dei fogli e dei borderò da presentare annualmente al Ministero dello Spettacolo. Tale meccanismo ha prosciugato creativamente forse un’intera generazione del teatro di cantina romano, sospinto a un produttivismo coatto, non più endogeno. Anche Perlini ne è una vittima. Inoltre, l’avanguardia è crudele. Come disse Man Ray: “Si è all’avanguardia una sola volta nella vita”. E nella seconda metà degli anni ’70, auspice sempre il critico Beppe Bartolucci, ecco balenare la post- avanguardia di Il Carrozzone-Magazzini Criminali, La Gaia Scienza, Falso Movimento che già fanno sembrare sorpassati i campioni del teatro-immagine.

Memé Perlini

Memé Perlini

AL CINEMA

Forse la mossa migliore di Perlini è al tempo quella di girare un film, Grand Hotel des Palmes, tratto dagli atti relativi alla morte a Palermo nel 1933 dello scrittore patafisico francese Raymond Roussel, rielaborati da Leonardo Sciascia, con la sceneggiatura di Nico Garrone. Una pellicola fantasmica e dissolta, di raffinato impianto sperimentale, recitata tra gli altri da Victor Cavallo (allora ancora Vittorio Vitolo) e presentata nel maggio 1978 al Festival di Cannes.
Altra mossa pertinente e lucida fu quella di aprire, a fine anni ’70, un proprio difforme ed eterodosso spazio teatrale, La Piramide, al quartiere Ostiense. Spazio che ospiterà per un decennio non soltanto gli spettacoli di Memè, ma anche il meglio della ricerca teatrale italiana (tuttora non c’è, che io sappia, un puntuale studio storico sugli spazi mitopoietici dell’avanguardia a Roma: dal Beat 72 al Metateatro, da Spaziozero a La Piramide ecc.).

INQUIETUDINE E SPAESAMENTO

Però, al medesimo tempo, tra fine Anni Settanta e primi Anni Ottanta, ho come l’impressione che Memè, anche per una sorta di personale inquietudine e spaesamento, finisca per smarrire la propria identità di artista. Quasi tradendo se stesso, accetta di fare la regia di un Mercante di Venezia (1980), dove attorno a un glorioso attore di tradizione come Paolo Stoppa recitano giovani interpreti in carriera, da Anna Bonaiuto a Sergio Castellitto, da Ennio Fantastichini a Edoardo Siravo e Tonino Accolla. L’anno successivo Perlini inscena al Teatro Argentina un John Gabriel Borkman di Ibsen con la traduzione di Claudio Magris. Ma questo sbarco nel teatro di convenzione palesemente non convince neppure lui che, subito dopo, fa un infiammato Eliogabalo (1981) da Artaud e Bataille con Toni Servillo protagonista e nel 1982, assecondando gli estri di Renato Nicolini, con la sua Estate Romana, anima una sorta di multipla kermesse teatrale sulle rive del Tevere, Intorno a Garibaldi, utilizzando tra gli altri i testi di Germano Lombardi, Enzo Siciliano e Valentino Zeichen. In quegli Anni ’80 chi prende il sopravvento è, secondo me, Aglioti che ha ramificati rapporti con il mondo dei salotti romani (Marina Ripa di Meana e l’annesso ambiente cortigiano). Coppia omosessuale alla moda, Antonello e Memè si prendono una bella villa presso Todi dove ospitano scrittori, registi, critici, attori e mondanità varia. È tutto molto piacevole e stile “dolce vita”, ma insieme Perlini scivola inesorabilmente fuori dall’avanguardia teatrale. Io rammento vari spettacoli di quel periodo – Cartoline italiane (1984), L’uomo dal fiore in bocca (1987), Storie di ordinaria follia (1988) da Bukowski, Skandalon, viva Fausto Coppi presentato al Festival di Spoleto del 1989 – dove la riconversione al teatro di parola non ha un segno forte, da regia critica alla Castri o Ronconi o, per citare un giovane di allora, Nanni Garella. Sono spettacoli contrassegnati da una medietà per assicurare una continuità di presenza, che mostrano la sua trasformazione da artefice teatrale in regista artigiano o di mestiere. Però un mestiere appreso da autodidatta e dunque con vari limiti e più di qualche incertezza nella direzione degli attori. È una trasformazione che, a parer mio, non soddisfaceva in primis Memè che rivolgeva al cinema le sue attenzioni e ambizioni. Nel 1987 gira, dal suo omonimo spettacolo, Cartoline italiane, interessante ed estrosa incursione nell’immaginario teatrale-circense, con protagonista il mimo Lindsay Kemp, ancora invitato a Cannes. Seguono poi altri film: Ferdinando, uomo d’amore (1990) dal testo-capolavoro di Annibale Ruccello, e ancora Il ventre di Maria (1992) e Dentro il cuore (1996).
L’ultima sua presenza in teatro come attore che ricordo è in un brutto spettacolo, Come tu mi vuoi di Pirandello (2002), per la regia di Pasquale Squitieri, dove recitava a fianco di Claudia Cardinale, senza lasciare un segno, esibendo un evidente disagio. Rammento più volentieri le sue varie apparizioni cinematografiche nelle pellicole altrui – tra cui Voltati Eugenio (1980) e Cercasi Gesù (1982) di Luigi Comencini, La famiglia (1987) di Ettore Scola, Notte italiana (1987) di Carlo Mazzacurati, Atto di dolore (1991) di Squitieri, la serie tv Il giovane Mussolini (1993), Come mi vuoi di Carmine Amoroso, Tosca e altre due (2003) di Giorgio Ferrara. Perlini ricopre ruoli di contorno, secondari, se si vuole anche “alimentari”, ma la sua figura affabile, un po’ corpulenta, sempre marchiata dall’ironia romagnola, non si lasciava dimenticare. E temo che per gran parte delle persone Memè ormai fosse quello lì, un attore minore di registi anche importanti, piuttosto che un aurorale artista di una dimenticata avanguardia scenica (di cui, forse, lui per primo sembrava immemore).

Memé Perlini in Voltati Eugenio di Luigi Comencini (1980)

Memé Perlini in Voltati Eugenio di Luigi Comencini (1980)

UNA PARABOLA DA RICORDARE

Negli Anni ’90 Memè lo incontravo assai di rado. Finito il suo sodalizio con Aglioti, lui si era, almeno in parte, trasferito in Tunisia, anche per frequentazioni omosessuali cui mi accennava di sfuggita. Ma lì, mi ripeteva, si trovava bene, teneva un laboratorio, gli avevano dato da dirigere un teatro, credo che facesse anche degli spettacoli di cui nessuno ha avuto notizia. Quella parentesi “africana” durata parecchi anni, penso sia stata l’ultimo periodo lieto della sua esistenza. A Roma non si ritrovava più, il tempo della smemoria sempre più accelerato lo aveva fatto cadere nell’oblio. I teatranti delle ultime generazioni che ignorano persino Carmelo Bene o Leo de Berardinis, uno come Perlini non sapevano neppure chi fosse. Memè credo si sentisse oramai un estraneo nel nuovo secolo-millennio, anche quando si ripresentava alla ribalta (i Menecmi di Plauto, 2011).
A ripensarla oggi, la sua parabola scenica degli Anni ’70 mi appare una epifania, un fuoco d’artificio luminoso e vorticoso che si è esaurito nel giro di meno di dieci anni. In quell’avanguardia romana che faceva cortocircuito con gli “anni ribelli”, con un’epoca di ribollente sommovimento socio- politico, ci si poteva inventare artisti, irrompere quasi senza preparazione e mostrare il lampo della propria imprevista creatività, ma poi la sfida era durare o reinventarsi, perché l’avanguardia non è un mestiere o una professione, è un gesto, un fiotto poetico necessariamente a termine. Pretendendo di perdurare, gran parte di quell’avanguardia si è immiserita, si è putrefatta in vita. Pochissimi (vedi Simone Carella o Bruno Mazzali) hanno avuto la lucidità di ritirarsi in tempo, prima di diventare gli ectoplasmi di se stessi. La malinconia penosa – il Black Dog nell’inglese idiomatico – che ha progressivamente ravvolto e condannato Perlini era il rovescio del narcisismo d’artista che l’aveva per un momento messo in sintonia felice e vertiginosa con lo Zeitgeist. Io gli sono comunque grato per le perle di teatro che ci ha saputo donare e credo che il suo significativo posto nella storia del teatro di ricerca del secondo Novecento nessuno glielo possa togliere. Poi, la sua tragica fine ci ha ricordato ancora una volta che “sic transit gloria mundi”.

Marco Palladini

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Marco Palladini

Marco Palladini

Marco Palladini, nato a Roma, è scrittore, poeta, drammaturgo, regista, performer e critico nell’ambito del teatro d’autore e di ricerca. Ha scritto e allestito una quarantina di testi, spettacoli e performance teatrali e poetico-musicali. Suoi testi in versi e teatrali…

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