Un bolero fantascientifico: il nuovo disco di Lucrecia Dalt

Si chiama “¡Ay!” il nuovo album della musicista di origine colombiana di casa a Berlino: un immaginario da “L'uomo che cadde sulla Terra” di Bowie, unito a salsa e bolero. Ne abbiamo parlato con lei

Con ¡Ay! Lucrecia Dalt (Pereira, 1980) si allontana in parte dalle sue precedenti sperimentazioni elettroniche, abbracciando una dimensione più melodica. Un ritorno alle origini, avvenuto durante il tempo dilatato della pandemia, di cui l’album risente con il suo stile rallentato, rarefatto e sognante. Un bolero fantascientifico o, più semplicemente, il desiderio di riportare alla luce suoni legati agli ascolti del passato, senza abbandonare il lato più tecnologico della sua personalità. Un immaginario da L’uomo che cadde sulla Terra, dove Preta, la protagonista della storia raccontata attraverso le canzoni, ci consente di guardare il nostro pianeta e noi stessi attraverso un’altra lente. Una riflessione sul non-tempo della coscienza e la possibilità di ritrovarlo nella nostra quotidianità, ma soprattutto un disco nato dalla ricerca di un luogo confortevole, ma completamente fuori da qualsiasi comfort zone.

Lucrecia Dalt, ¡Ay! Album Artwork

Lucrecia Dalt, ¡Ay! Album Artwork

INTERVISTA A LUCRECIA DALT

Nell’album le canzoni sono collegate da una storia, la cui protagonista è Preta, un’entità aliena al pari di David Bowie, ovvero l’extraterrestre Thomas Jerome Newton, ne L’uomo che cadde sulla Terra. In che modo questo riferimento visivo ha influenzato la parte musicale e canora?
Il percorso è andato in parallelo, prima ho iniziato a sviluppare la musica, poi le canzoni, il concept e le idee sono confluiti in un unico album. Sono partita dall’esplorazione delle sonorità tropicali, sapevo che ne avrei restituito una mia versione, con l’utilizzo dei sintetizzatori. Per un altro progetto avevo cominciato a scrivere una storia. Poi intuitivamente ho pensato che parte di quella storia si potesse trasformare in canzoni da associare alla parte musicale che stavo sviluppando, ed è emersa questa idea di bolero fantascientifico, di cui mi sono immediatamente innamorata.

Che tipo di esperienze fa Preta in questo viaggio? Possiamo considerare No Tiempo come un prologo, mentre in coda all’album abbiamo un epilogo. Cosa accade nel mezzo alla nostra protagonista?
Attraverso Preta ho cercato una scusa per esplorare un’altra dimensione, un modo differente di guardare al mondo. Durante la pandemia abbiamo affrontato un cambiamento che ha coinvolto mente, corpo e relazioni. Ho voluto compiere un esercizio analogo, mentre mi sono entusiasmata di fronte alla visione di Lessons of Darkness di Werner Herzog. Quindi, da un lato, ho riflettuto sul mistero, dall’altro con il filosofo Miguel Prado ho portato avanti un dialogo sulla coscienza. L’esperienza della temporalità, per questa entità aliena, è quella più curiosa. Tutto sul nostro pianeta viene filtrato dalla lente del tempo. La nostra stessa vita. Così ho immaginato come si potesse provare a farne esperienza per la prima volta.

Mi pare tu abbia suggerito una visione mistica della natura. Sei d’accordo?
Non so se mistica sia la parola corretta. Sicuramente Preta è affascinata da ciò che diamo per scontato, e ci consente di fare esperienza dell’assenza del tempo, perché non lo conosce. Forse in questo senso ci introduce a una relazione magica con il mondo, oppure ci suggerisce l’esistenza del paranormale, cioè di tutto ciò che esula dalla nostra razionalità, dalla relazione numerica con il tempo.

L’ascolto mi ha suggerito una visione fantascientifica più vicina a Octavia E. Butler, o al realismo magico, rispetto alla science fiction tradizionale. Ti ci ritrovi?
Certamente. Non si tratta di una fantascienza “comune” dove il fulcro del discorso è la tecnologia, è più filosofica, ci consente di interrogarci sulla coscienza e sui limiti del nostro corpo.

PASSATO E FUTURO NELLA MUSICA DI LUCRECIA DALT

La riflessione sul futuro non riguarda il rapporto uomo-macchina, ma mette al centro il corpo e il mondo naturale. La restituzione è più surreale e sognante. A questo proposito, alcuni anni fa ho intervistato Craig Leon, dopo il live di Nommos. In quel caso l’immaginario fantascientifico rimandava a una visione archeologica del futuro, perché la sua musica è un folk del futuro. Naturalmente si tratta di un lavoro molto diverso dal tuo, però riscontro una similarità, a partire da questa idea di futuro passato…
Molte persone ascoltando ¡Ay! hanno dato la tua stessa interpretazione, però il processo creativo è stato completamente intuitivo, quindi non posso affermare di aver scelto questa direzione da un punto di vista concettuale. Sapevo di voler esplorare un genere, il mio passato, rievocare le memorie dei miei ascolti, quindi mi sono concentrata sul bolero e sulla salsa, facendoli incontrare con la tecnologia che utilizzo per produrre musica. Un processo molto lento, che porto avanti da anni. Per cui questa idea di futuro, più che decisa a tavolino, è emersa lavorando sulla musica.

Qual è il motivo di questo ritorno, mentale e musicale, al passato e al tuo Paese?
Penso sia legato a quanto stavo dicendo sulla pandemia, sull’aver vissuto un tempo in cui le relazioni umane erano distorte, la solitudine aveva preso il sopravvento e le distanze erano diventate incolmabili, anche se c’era la possibilità di stare in contatto grazie ai mezzi di comunicazione. È stato però un periodo di grande confusione, dove non era possibile incontrare le persone a cui si voleva bene. Quindi ho voluto esplorare qualcosa di caldo, mi era sembrato azzeccato per il momento che stavo vivendo. Molti anni prima avevo fatto un mix con molte sonorità del bolero e avevo cominciato anche a studiare la sua diffusione, fuori dai suoi confini: in Europa, Giappone e Vietnam, per esempio. L’ho trovato un genere bellissimo e sottovalutato. Inoltre mi interessava ritmicamente, così ho deciso di recuperarlo.

Perché hai scelto questo stile così lento e rarefatto, perfetto per suggerire un’atmosfera da altro mondo?
In realtà non lo so! Mi stupisco pure io spesso delle mie scelte, credo sia dovuto al fatto che quando sono dentro al processo creativo non sono molto cosciente. Ora sto lavorando con un percussionista per adattarlo per il live e chiaramente stiamo cercando di velocizzarlo, e ogni volta che lo ascolto mi sembra una scelta così anomala. Magari questa lentezza è emersa perché lavoravo in un clima molto rilassato e quindi ho cercato di trasmettere un altro tipo di energia, seguendo il mio impulso interno.

Carlotta Petracci

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Carlotta Petracci

Carlotta Petracci

Sempre in bilico tra arte e comunicazione, fonda nel 2007 White, un'agenzia dal taglio editoriale, focalizzata sulla produzione di contenuti verbo-visivi, realizzando negli anni diversi progetti: dai magazine ai documentari. Parallelamente all'attività professionale svolge un lavoro di ricerca sull'immagine prestando…

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