Pianissimo e fortissimo. Sui saggi di John Cage

Non si può certo dire che l’editore campano Ortothes non sia coraggioso. Eh sì, perché pubblicare i saggi di John Cage è un’impresa: sono difficilissimi da tradurre e sono molto, molto ostici per i lettori. Ma ne vale la pena. Perché? Ve lo spieghiamo qui.

Ne I Linguaggi dell’Arte, Nelson Goodman faceva notare come “uno spartito è considerato correntemente come un mero utensile, non più essenziale all’opera compiuta di quanto non lo sia lo scalpello dello scultore o il cavalletto del pittore”. Ma aggiungeva: “Ritenere che la notazione non sia altro che un ausilio pratico per la produzione significa lasciarsene sfuggire il fondamentale ruolo teorico”. Ruolo che non era certamente sfuggito a John Cage, che al ripensamento del concetto di notazione e di spartito ha dedicato gran parte delle sue energie e della sua opera di teorico e di musicista.
Una sorta di corollario, o probabilmente la causa, di questa ossessione di Cage per lo spartito, e dunque per il linguaggio, è quello che Fernando Vincenzi – co-curatore, insieme ad Antonella Carosini, del libro Parole Vuote – sottolinea senza mezza misura nell’introduzione a questo libro: nell’opera di Cage non vi è nessuna differenza “fra i due generi”, quello degli scritti teorici e quello della musica. Negli anni in cui scrive Parole Vuote, la fine degli Anni Settanta, Cage si misura con la forma musicale romantica dello Studio (si pensi ai primi due libri dei famigerati Freeman Etudes, vera croce e delizia per tutti i “violinisti-atleti” che si cimentano con questa partitura, ma anche agli Studi Australi e agli Studi Boreali). Musica difficilissima da eseguire ma anche da ascoltare, musica che richiede “lavoro”, “lavoro duro, e incessante”, scrive Cage ne Il Futuro della Musica. Arte e impegno, arte e realtà, arte e mondo sono binomi indissolubili per il compositore americano.

John Cage – Parole Vuote

John Cage – Parole Vuote

Anche leggere Cage è estremamente difficile: richiede impegno, lavoro duro, e incessante. Perché leggerlo, allora, oltre che ascoltarlo? È la stessa domanda che si sono fatti i molti lettori di Silence, il primo libro di Cage risalente al 1961. E l’impegno profuso potrebbe addirittura essersi rivelato vano per chi lo abbia letto in traduzione italiana, prima grazie all’edizione parziale Feltrinelli, del 1971, poi più di recente, nel 2011, grazie alla traduzione integrale di Giancarlo Carlotti e alla lungimiranza dell’editore Shake. Una traduzione che, certo, non scalfisce quell’aura di oggetto mistico che il libro si porta dietro sin dalla sua apparizione: i passaggi più criptici continuano a rimanere tali per il lettore italiano come per il madrelingua inglese.
Lo stesso avviene con Parole Vuote. Qui a sobbarcarsi il difficile compito di tradurre i saggi che lo compongono è stata Antonella Carosini, che si chiede giustamente se sia possibile tradurre un testo composto di lettere, sillabe, parole e solo occasionalmente frasi, “estratte con procedimenti casuali da un altro testo” (il Finnegans Wake, ma anche molti testi sapienziali), e senza avere la mappature di questi procedimenti – la risposta, sia detto per inciso, è sì: questa traduzione, come ogni traduzione, è un azzardo necessario. Perché leggere questo libro allora?
Ma la vera domanda è: come leggere questo libro? Così: “Cercare un modo per leggere (ad alta voce). Cambiare la frequenza. Andare verso l’alto e poi andare verso il basso: andare agli estremi […] Continuare a cercare”. Con un atteggiamento di ricerca che ha un’equivalente nella pratica dell’ascolto, perché non vi è differenza alcuna, in Cage, tra musica e parole – così come tra musica e immagini, ad esempio in 49 Waltzes for the Five Boroughs.

John Cage

John Cage

Una volta ho avuto l’opportunità di ascoltare un suono veramente forte – la conclusione di una rappresentazione Zaj”, scrive il compositore ne Il Futuro della Musica. “Sapevo da dove proveniva il suono. Mi misi accanto all’altoparlante da cui si sarebbe sentito e stetti lì un’ora, dirigendo prima un orecchio e poi l’altro nell’altra direzione. Quando finì mi squillavano le orecchie. Lo squillo continuò per tutta la notte, per tutto il giorno dopo e per tutta la notte seguente. La mattina del giorno ancora successivo, presto, presi un appuntamento con uno specialista dell’orecchio […] Il dottore fece un esame completo e disse che le mie orecchie erano normali. Il disturbo era stato temporaneo. Il mio atteggiamento nei confronti dei suoni forti non è cambiato. Li ascolterò ogniqualvolta ne avrò le opportunità”. Parole che, messe nere su bianco proprio dall’autore di 4’33’’, dal profeta del silenzio, fanno un certo effetto. E allora leggere (e ascoltare) per protendersi in direzione degli estremi, del fortissimo e del pianissimo, del silenzio e degli squilli nelle orecchie. Leggere (e ascoltare) per continuare a cercare.

Vincenzo Santarcangelo

John Cage – Parole Vuote. Scritti ‘73-‘78
Ortothes, Salerno 2015
Pagg. 232
ISBN 9788897806868

www.orthotes.com

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Vincenzo Santarcangelo

Vincenzo Santarcangelo

Vincenzo Santarcangelo insegna al Politecnico di Torino e allo IED di Milano. Membro del gruppo di ricerca LabOnt (Università di Torino), si occupa di estetica e di filosofia della percezione. È direttore artistico della rassegna musicale “Dal Segno al Suono”,…

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