Dreamwave, synthwave, new retro wave. Appunti sulla nostalgia sintetica
Esiste una strana sottocultura musicale. Strana perché, a differenza del passato, non sembra fondarsi sulla prossimità fisica e in un luogo materiale (una città: Manchester, New York, Londra, Seattle, Chicago…), ma piuttosto sulla pura immaterialità. E su un tipo molto specifico di nostalgia sintetica.
La dreamwave (o new retro wave o synthwave che dir si voglia) è riuscita a ricreare una versione ideale degli Anni Ottanta. Struggente – perché più vera del vero. Musicisti come i Timecop1983, i Miami Nights 1984, Com Truise, Perturbator – singoli autori che suonano come gruppi, costruendo la loro musica integralmente al computer – si sono infatti impegnati a creare qualcosa che non esisteva (se non, appunto, nel mondo dei sogni) a partire da elementi già dati.
Un immaginario molto resistente, efficiente e potente. Nostalgia di un’era che contiene il vero inizio della crisi attuale, le sue premesse. Quando tutto era o sembrava più semplice. Un mondo fatto di molteplici riferimenti, che si integrano e si completano a vicenda: Ocean Drive della mente; Rocky sulla spiaggia con Apollo, o che medita triste sulla morte mentre guida la sua Lamborghini; la breakdance; Ritorno al futuro; i colori fluo; i pattini a rotelle e lo skateboard; la BMX; Mannie in Scarface; Miami Vice; le spalline.
“Sembrava che fossimo diventati un popolo del deserto all’improvviso, come se fosse stato un fenomeno naturale, previsto, come se il mondo si fosse spostato mentre eravamo troppo occupati a vivere per farci caso o preoccuparci di quanto stava accadendo” (James Braziel, 35 miglia a Birmingham, Urania 1558, Mondadori 2010, p. 49).
La dreamwave agisce nel subconscio. È musica che ti fa piangere. Solletica i ricordi di quando eri bambino negli Anni Ottanta, e le cose sembravano così ordinate e pulite e colorate. Questo mondo, che naturalmente è immaginario e illusorio ma che ha basi molto solide nella realtà storica della produzione culturale, è frutto di una continua rielaborazione di dati, forme, contenuti. Alcuni standard della musica Anni Ottanta (synth pop, new wave, new romantic) vengono sussunti ed espansi, fino a occupare lo spazio di un brano o di un intero disco. La cifra della dreamwave è, in effetti, un certo tipo di transustanziazione culturale: i modelli vengono acquisiti e superati, all’interno di uno schema orientato a produrre una musica simulacrale.
Ma proprio in questo suo essere simulacro, spettro di una se stessa originaria e originale, la musica dreamwave si colloca in quella terra di mezzo tra sogno e trauma (che, non a caso, in tedesco si dicono nello stesso modo: Traum). Fra gli interstizi e le intercapedini di questi suoni possiamo dunque intravvedere in maniera abbastanza distinta il vuoto sociale di questi anni. L’unico e solo immaginario di riferimento, infatti, è quello di trent’anni fa, dell’infanzia (canzoni, film, immagini, personaggi, icone, oggetti, balli, tagli di capelli, abiti, veicoli).
Remoto, scomparso, evaporato.
Un fondamento al tempo stesso molto concreto, e molto fantasmatico.
In questo rifiuto, in questa negazione assoluta dell’oggi – in questo voler creare un presente alternativo sulle ceneri di un tempo svanito, un presente sintetico che rimuove categoricamente quello reale, effettivo, solo per ricrearne una versione più elaborata e sofisticata – si nasconde molto probabilmente un segreto prezioso e oscuro di questo tempo.
“Il Mondo Salvo stava davvero progredendo, come ci garantivano? La gente sorrideva quanto le persone della tv? I loro movimenti e gesti mentre passavano da stanza a stanza, da un locale all’altro, che fossero a piedi o in automobile, soli o in compagnia: ogni attore e attrice esprimeva una fiducia e disinvoltura totali, come se il mondo attorno a loro fosse sicuro e disposto a proteggerli. Era possibile? Era vero?” (James Braziel, 35 miglia a Birmingham, cit., p. 62).
Christian Caliandro
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