“Bobò”, film tra cinema e teatro. Pippo Delbono e il suo inseparabile compagno di palcoscenico

È una storia unica, folle, emozionante, di libertà e speranza. Pippo Delbono la dedica a Vincenzo Cannavacciuolo, in arte Bobò, scomparso nel 2019. Tre premi al Torino Film Festival, ora al cinema con Luce Cinecittà

Non è un film di finzione e non è, propriamente, un documentario. Bobò, presentato al Torino Film Festival (vincitore di tre premi: la menzione speciale del concorso internazionale documentari, il premio Interfedi e la menzione del premio Gli occhiali di Ghandi) e in sala dal 27 novembre con Luce Cinecittà, è piuttosto un attraversamento: un gesto di libertà che corre sul filo sottile tra cinema e teatro, dove la memoria diventa materia viva, e il presente s’infrange contro ciò che resta. Pippo Delbono lo dedica al suo compagno di scena più fedele, Bobò, pseudonimo di Vincenzo Cannavacciuolo, scomparso nel 2019 dopo una vita vissuta contro ogni definizione possibile.

Tra Delbono e Bobò un incontro poetico

Per oltre vent’anni Bobò è stato il cuore pulsante degli spettacoli di Delbono. Un uomo sottratto al silenzio del manicomio. “L’ho portato via che aveva quarantasei anni”, racconta il regista – e restituito al mondo come artista. Sordo, muto, quasi analfabeta, ma capace di una grazia che non aveva bisogno di traduzione. “Si muoveva in modo poetico. Ogni cosa che faceva era bellissima. Non era una persona malata, era un genio. Unico, irripetibile”.

Dall’archivio alla vita: un film fuori da ogni forma

Il film raccoglie materiali d’archivio girati nell’arco di decenni: prove, riprese rubate, frammenti di tournée, momenti di quotidianità. Più di trecento ore digitalizzate e intrecciate con nuove immagini girate a Napoli e ad Aversa, dove la loro storia è cominciata. Il risultato è un oggetto non catalogabile, a metà tra rito e confessione, un’opera che abbatte le barriere – di linguaggio, di genere cinematografico, di identità. Delbono diventa voce narrante, guida dolce e inquieta di un viaggio che non cerca spiegazioni, ma presenza.

Il mistero del corpo che ascolta l’invisibile

E la presenza di Bobò era assoluta. “Ballava a ritmo, ma era sordo. È un mistero”, dice Delbono. Gli bastava ascoltare la vibrazione dell’aria: dal pop a Chopin, il suo corpo cambiava danza come se traducesse l’invisibile. Toccare il sacro era per lui un gesto involontario, come respirare. Viveva nell’istante, senza prima né dopo, e proprio in quell’attimo riusciva a generare un’intensità che appartiene solo ai grandi attori, quelli che non sanno di esserlo.

Precisione e improvvisazione

Sul palco improvvisava, ma una volta trovata la forma voleva ripeterla identica, “svizzero”, diceva Delbono, nel desiderio ostinato della precisione. Amava tutti, ed era impossibile non amarlo. La sua calma, la sua immobilità, erano una lezione. “Cerco di fare come lui: catturare l’attenzione non facendo niente”. Per Delbono, che al cinema aveva debuttato con Guadagnino in Io sono l’amore, la scena resta un luogo di verità più profonda. Un luogo dove si può ancora tentare di essere possibili.

Un’eredità artistica unica

Bobò è allora un gesto di gratitudine, ma anche una mancanza da attraversare. Un modo per continuare a condividere un’eredità che non è fatta di teoria, ma di un corpo piccolo e tenace che ha mostrato a un’intera compagnia – e a migliaia di spettatori – che la libertà, a volte, arriva da dove meno ce lo aspettiamo. E che il teatro, come la vita, può essere una casa senza porte: basta avere il coraggio di entrarci.

Margherita Bordino

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Margherita Bordino

Margherita Bordino

Classe 1989. Calabrese trapiantata a Roma, prima per il giornalismo d’inchiesta e poi per la settima arte. Vive per scrivere e scrive per vivere, se possibile di cinema o politica. Con la valigia in mano tutto l’anno, quasi sempre in…

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