Le nuove voci del cinema italiano contro la violenza sulle donne: da Paola Cortellesi a a Francesca Schirru

Non c’è redenzione possibile se non si guarda il dolore negli occhi. Dal trauma privato alla consapevolezza collettiva, il cinema italiano prova a raccontare l’indicibile: non solo la violenza di genere, ma le strutture che la rendono possibile

C’è una linea sottile, sempre più visibile, che attraversa il cinema italiano degli ultimi anni. Non si tratta di una moda narrativa né di un gesto retorico: è un’urgenza. Un bisogno profondo di raccontare ciò che per troppo tempo è stato nascosto o peggio, normalizzato. La violenza contro le donne – dentro le mura domestiche, nei legami sentimentali, nelle pieghe del quotidiano – non è più relegata al ruolo di detonatore narrativo o di colpo di scena e quando il cinema sceglie di non voltarsi dall’altra parte, può farsi strumento di consapevolezza. Può restituire dignità a chi è stata cancellata anche dalle parole.

Il corpo della donna come campo di battaglia

C’è ancora domani (2023), esordio folgorante di Paola Cortellesi, ha rotto l’argine. Un bianco e nero che non è vezzo estetico ma necessità politica: mostrare come la violenza domestica sia stata (ed è) parte strutturale del nostro tessuto sociale. Non un “caso”, ma un sistema. Con lucidità quasi didattica e un tono da commedia neorealista – che alterna ironia e tragedia con leggerezza feroce – il film smaschera la normalizzazione del sopruso, la complicità del silenzio, il ruolo delle istituzioni. Eppure, a suo modo, Cortellesi osa l’utopia: mostra una donna che, scegliendo di dire “no”, cambia tutto. Ma il corpo femminile resta spesso il luogo dove si giocano potere, dominio, controllo. In La vita possibile (2016) di Ivano De Matteo, la fuga di una madre con il figlio diventa un percorso doloroso verso la ricostruzione. Il film non concede indulgenze ma sceglie il realismo asciutto: la violenza non finisce con la fuga, continua nei ricordi, nella diffidenza, nelle crepe.

Il cinema italiano indaga il tema dell’educazione alla violenza 

Come nasce l’odio verso le donne? Una domanda che La scuola cattolica (2021) di Stefano Mordini, tratto dal romanzo di Edoardo Albinati, affronta frontalmente. Il film non si concentra sulla brutalità in sé ma sull’“humus culturale” – il privilegio borghese, il maschilismo sistemico, l’educazione autoritaria – che la genera. La scuola, la famiglia, la religione: tutti partecipano, più o meno consapevolmente, a costruire l’ideologia del dominio. Quella stessa ideologia è presente, sotto altre forme, in L’amore rubato (2016) di Irish Braschi, tratto dall’omonima raccolta di racconti di Dacia Maraini, dove cinque storie vere svelano quanto sia capillare e trasversale la violenza di genere, o in Malamore (2025) di Francesca Schirru, un film che affonda nella realtà del presente e mette in scena senza filtri i meccanismi del dominio. Così il cinema, lentamente, prova a smontare i dispositivi culturali che legittimano l’abuso.

Un linguaggio nuovo è possibile? La ricerca del cinema italiano

Il cinema italiano sta cercando una nuova grammatica per parlare di violenza di genere. Alcuni ci riescono, altri inciampano. Una cosa è certa: la discussione è finalmente iniziata. Non bastano più le vittime che piangono in silenzio: serve spazio per la rabbia, per la complessità, per la politica.
Forse il passo successivo sarà raccontare le donne non solo in quanto vittime, ma come soggetti di cambiamento. In questo, l’eredità di C’è ancora domani potrebbe diventare seme. Perché non basta denunciare: bisogna riscrivere la narrazione. E a volte serve farlo con la furia di chi non vuole più aspettare.

Gaia Rotili

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