Povere Creature conquista quattro Oscar. Ma il film tratta davvero di emancipazione femminile?

Povere Creature diviene l’annichilimento dell’empowerment femminile e l’umiliazione dell’emancipazione (femminile), se non interpretato correttamente. Spieghiamone il perché

Il film Povere Creature – tradotto in italiano dall’inglese “Poor Things” (chiaro rimando allo scritto di Mary Shelley, anche se post Sanremo di Geolier si farebbe bene azzardare a definirlo quasi come un’elegante citazione di un napoletano sdoganato, metonimia dell’accoglienza del diverso) – è un adattamento su pellicola diretta dal regista greco Yorgos Lanthimos, dell’omografo titolo di Alasdair Gray. Il film si presenta come un’opera di formazione, in cui la protagonista – Bella Baxter, che prende vita grazie all’interpretazione “spot on” di Emma Stone per cui ha vinto, a buon diritto, uno dei quattro Oscar assegnati a Povere Creature (gli altri premi sono stati: migliore scenografia a James Price, Shona Heath e Zsuzsa Mihalek, migliori costumi a Holly Waddington e miglior trucco e acconciatura a Nadia Stacey, Mark Coulier e Josh Weston) – è una novella si direbbe, equivocando, “Frankenstein” di Mary Shelley. A chiamarsi Frankenstein – in realtà – è il dottore, mentre “She-Shelley” sceglie di non dare un nome al “mostro”, che viene chiamato icasticamente la “Creatura” (oggi, nell’epoca dei figli chiamati #xyz24, tale atto di s- personificazione forse sbiadisce nella sua potenza evocativa). Questo come monito dell’azzardo compiuto dall’uomo che – ebbro di ubris – si autocelebra come creatore (di progetti, di vite, di confini tra Stati), ritrovandosi poi deus ex machina incapace di fornire gli strumenti per uno sviluppo sano, equo, inclusivo e sostenibile, piuttosto che di monitorarne i progressi.

Povere Creature
Povere Creature

“Povere Creature” di Lanthimos parla davvero di emancipazione femminile?

Povere Creature a un occhio superficiale è il percorso (grottesco) di emancipazione di una giovane donna, che scopre se stessa – o si riscopre – attraverso un “Gioco dell’Oca” durante il quale il progresso e l’avanzamento vengono misurati in base al quantitativo e alla qualità dei kink che Bella sperimenta, superando le critiche della morale e del costume. In altre parole sembrerebbe passare il messaggio per cui l’emancipazione femminile si concreti sostanzialmente quasi esclusivamente nella “sua” emancipazione sessuale se antitetica al conformismo. È fuori dubbio che l’emancipazione di un individuo passi anche (non solo) attraverso la sua emancipazione sessuale e che le istanze femministe siano – storicamente – interpreti di svariate questioni in tema di libertà sessuale (libertà di tout court, prostituzione, omosessualità rectius le sessualità e le affettività LGBT+, aborto…). E tra le forme visive più esplicite di libertà sessuale ci si è domandati come interpretare la cinematografia “di genere”, valutando se il porno fosse una mortificazione o un’esaltazione dell’emancipazione sessuale della donna (vale la pena ricordare che Angela White e Valentina Nappi, due affermate protagoniste del mondo del porno, hanno fatto studi in materia di Gender Diversity). In aiuto, per rispondere a questa provocazione, arriva la regista Erika Lust, a cui è stata attribuita la frase: “The sex can stay dirty, but the values have to be clean”.

Emma Stone in POOR THINGS. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 Searchlight Pictures All Rights Reserved
Emma Stone in POOR THINGS. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2023 Searchlight Pictures All Rights Reserved

“Povere Creature” di Lanthimos e la “costruzione della coscienza nel sesso”

Quindi nel sesso per poter parlare di emancipazione i valori devono essere puliti, trasparenti, genuini: ed è esattamente questo che non traspare inequivocabilmente dal film Povere Creature, il valore genuino della “creazione di una coscienza” (citando, manipolando, il testo originale di Alasdair Gray). Ma in cosa consiste la costruzione della coscienza nel sesso? Certamente non può interpretarsi nella negazione della libertà sessuale, né concretarsi in singole o specifiche pratiche, attitudini. In Povere Creature si può cadere nella confusione tra coscienza e incoscienza nelle scelte, questo perché Bella: a) a un certo punto sembra essere libera perché sceglie di diventare una prostituta per sostenersi economicamente, prostituta che però non può scegliersi i suoi clienti (la letteratura femminista racconterebbe che l’emancipazione delle operatrici del sesso passa in primis attraverso la libera determinazione della clientela), e b) Bella è sostanzialmente un cervello d’infante nel corpo di una donna, dunque agisce guidata da un fanciullino (inesperto e capriccioso) interiore, il cui afflato naif, fattosi Pigmalione, diventa la giustificazione di tutto ciò che fa o le capita, spingendola verso comportamenti forse più autodistruttivi, border, che “di puro e libero divertimento”. “Vivere un’esistenza radicalmente libera” dice “l’Internet” a proposito delle esperienze della protagonista.

“Povere creature!” di Yorgos Lanthimos
“Povere creature!” di Yorgos Lanthimos

“Povere Creature” di Lanthimos. Il ruolo di Bella Baxter

Ma è davvero così? È davvero una donna/bambina prima e donna/bambina “con esperienza” poi a rappresentare l’emblema dell’emancipazione femminile, o forse queste descrizioni sussurrano a un orecchio più vicino ad una sensibilità sessuale maschile. E ancora siamo sicuri che una libertà deresponsabilizzata e deresponsabilizzante sia davvero la strada dell’emancipazione? Forse sarebbe opportuno interpretare questa libertà “assoluta” come una tappa del percorso di emancipazione ed empowerment. Forse l’emancipazione si forma una volta sperimentati i propri fallimenti, dopo aver costruito i propri confini, dopo aver accettato di essere caduti nella trappola del perbenismo e in quella dell’anticonformismo. È un prezzo alto da pagare per consegnarci alla vita in una versione di noi stessi più evoluta. E alla fine Bella potrebbe avercela fatta. La vera libertà, infatti, viene raggiunta dalla protagonista solo alla fine del film, quando sembra essere riuscita a scrollarsi di dosso contemporaneamente sia l’etichetta della moralità che l’anti-etichetta del radicalmente libero, arrivando – tanto febbrilmente da passare quasi inosservata – a scegliere la sua missione, il suo ikigai, l’autentico sé come avrebbero detto Simone de Beauvoir: essere una donna medico, di cui non conosciamo più le avventure sessuali, perché è libera di fare ciò che vuole, senza dover dimostrare alcunché, nemmeno allo spettatore (e forse neanche allo scrittore burattinaio che ne ha determinato le caratteristiche e le avventure). La coscienza nel sesso e la coscienza in generale si estrinsecano in una consapevolezza di sé che porta a scegliere “di” e “di non” (di fare e di non fare, di raccontarsi e di non raccontarsi): questa è libertà, questa è emancipazione, questo è empowerment. Questo meriterebbe un Nobel.

Beatrice Russo

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