La storia di Ernst Lubitsch: il regista e attore che incantò Hollywood con l’arte dei sottintesi

A 130 anni dalla nascita, un ritratto di Ernst Lubitsch (Berlino, 1892 - Los Angeles, 1947) maestro della commedia sofisticata che si formò in Germania ma costruì a Hollywood la sua carriera, senza però cedere alle lusinghe dello “star system”. Gran signore sul set come nella vita, ha firmato pellicole senza tempo che varrebbe la pena riscoprire.

Di famiglia ebraica ashkenazita, Lubitsch possedeva un talento particolare per osservare e raccontare quella caratteristica tanto umana del guardare la vita di sottecchi con la nonchalance di chi pare saperla lunga, e invece poi si scopre che sta solo bluffando; nelle sue pellicole si è trascinati da quell’enigmatico ammiccare che è un invito a giocare a nascondersi, a tuffarsi in un’atmosfera fiabesca che però è solo apparente. Gli esordi alla metà degli anni Dieci, nella natia Germania, lo vedono – dopo aver frequentato il dramma in costume – atipico esponente del cinema espressionista, in quanto le sue pellicole si sviluppano sull’esibizione smaccata dell’artificio, sull’incontro/scontro fra pubblico e spettacolo, sulla tagliente ironia con cui rivela la separazione fra illusione e realtà. Un espressionismo assai meno drammatico rispetto al taglio di Fritz Lang, Karl Grune o Friedrich Wilhelm Murnau. Nonostante ciò, il suo cinema non è fatto per l’evasione: Lubitsch è un regista all’avanguardia, si muove fra l’operetta in costume e la commedia sofisticata, rilegge Shakespeare (Die Austernprinzessin, 1919) e frequenta il cinema espressionista (Die Puppe, 1919), ma lo fa tenendo lo sguardo sempre puntato sulla realtà umana, stigmatizzando la meschinità dell’avidità, riflettendo sulla complessità e i paradossi delle relazioni sentimentali, e del resto la controversa Repubblica di Weimar gli offre materia d’indagine, così come la offre ai pittori della Neue Sachlichkeit. Fra le sue interpreti femminili, seppe valorizzare il talento e la bellezza di Apolonia Chałupiec (più nota come Pola Negri), che diresse in ben sette pellicole, fra dramma, operetta  e satira antimilitarista.

LUBITSCH: LE LUCI DI HOLLYWOOD

Nel 1923 lasciò l’Europa per gli Stati Uniti, che strabiliò con il celebre “tocco Lubitsch”: consisteva in una particolare tecnica narrativa tradotta in immagini che non mostravano tutti i dettagli della trama, ma lasciavano allo spettatore il compito di completarla, immaginando le scene o i dettagli mancanti. Per questo i suoi film abbondano di voci e rumori che giungono da altre stanze, di porte chiuse, di dialoghi pieni di sottintesi. Un’intuizione che, se in Europa aveva il pregio di rendere accattivanti le sue pellicole, negli Stati Uniti si rivelò preziosa per evitare d’incorrere nell’occhiuta censura di quella società così puritana. Ma, paradossalmente, proprio il non detto e la semplice allusione riuscivano a suggerire assai meglio delle parole e delle immagini quanto invece si doveva tacere, grazie appunto al talento registico di Lubitsch. Le cui allusioni, non sono necessariamente (anzi quasi mai) rivolte al sesso, anche se questo compare sottoforma di raffinatissimo e a volte tragico erotismo: da buon osservatore, ma soprattutto da intellettuale che riflette sulla realtà, Lubitsch rivolge vibrate critiche al conformismo americano, al disagio interiore della vita di coppia, all’ipocrisia puritana. E se il pubblico americano non chiedeva di meglio che poter ammirare quell’Europa leggendaria, libertina, decadente e letteraria (o quello che ne rimaneva dopo la fine della Belle Époque), Lubitsch ne confezionava l’atmosfera, prestandola però a situazioni americane. Un’indagine che, negli stessi anni, portava avanti anche Francis Scott Fitzgerald (che aveva presa la direzione opposta, emigrando per un po’ in Europa), e che vedrà nella sua commedia The Vegetable il più stretto contatto fra i due autori. Tuttavia Lubitsch sceglierà sempre di rimanere nell’ambito della commedia sofisticata (fra gli esempi più gradevoli di atmosfera fitzgeraldiana, Trouble in Paradise), attraverso la quale dimostrò il suo talento, elevandosi di molte spanne al di sopra degli altri registi europei che nel frattempo si erano trasferiti a Hollywood. Questa lo accolse con entusiasmo, ma fu Lubitsch a stabilire le regole. Al punto da realizzare una satira dell’anticomunismo dirigendo Greta Garbo in Ninotchka.

Ernst Lubitsch sul set, fine anni Venti

Ernst Lubitsch sul set, fine anni Venti

LUBITSCH: GLI ANNI ‘40


Il decennio successivo segnò la maturità del regista, che firmò pellicole importanti quali Scrivimi fermo posta, Cluny Brown e The shop around the corner, intelligente commedie dall’acuto sguardo sugli aspetti psicologici delle relazioni sentimentali, venate di una sapiente mistura di romanticismo  e ironia. Perché la vita non va presa troppo sul serio. Nel 1942, ormai in piena guerra, Lubitsch girò To be or not to be, spiccata satira contro la follia hitleriana, sulla scia del Grande Dittatore chapliniano (uscito appena due anni prima). Il film è ancora un omaggio a Shakespeare e al teatro, che è stato un riferimento quasi costante della sua carriera, caratterizzando il suo stile raffinato e nel modo in cui diresse i suoi attori. Fu anche l’ultima interpretazione di Carole Lombard, che sarebbe morta poco dopo in un incidente aereo. In questi ultimi anni di attività Lubitsch affinò quell’ironia brillante, ma sottilmente cinica e amara, e quella leggera atmosfera di fiaba che permea tutti i suoi film e che insieme si sarebbero in parte ritrovate anche nell’opera di Woody Allen. Lubitsch morì prematuramente il 30 novembre 1947, a causa di un attacco cardiaco. E chissà come avrebbe raccontato l’America ipocrita del maccartismo e dell’Amministrazione Kennedy.

Niccolò Lucarelli

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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